Chissà se qualcuno si ricorda della nave “Kadër i Radës”. A Tirana sono ancora in molti, moltissimi a ricordare quella tragedia. Oggi che nel Belpaese si parla, a vanvera, di respingimenti, di controllo militare delle frontiere rispetto a quei migranti che vengono dal sud del mondo, bisognerebbe tornare con la memoria al venerdì santo del 1997, quando la corvetta Sibilla, con una serie di manovre di “dissuasione e respingimento”, con una “azione cinematica di disturbo e interdizione”, speronò la nave albanese carica di profughi. Ci furono 80 morti accertati in quella tragedia, di cui 31 avevano meno di sedici anni. L’Albania di oggi non ne ha perso memoria.
Tirana è una città dal carattere forte, con un suo innegabile fascino. Circondata dai monti – spesso trasformati in bunker – già avvampa nel caldo estivo: la gente si ferma nei caffè, passeggia nel blok (l’ex zona della nomenklatura riconvertita alla movida), chiacchiera allegra in mezzo a un traffico inesorabile.
L’architettura fascista – sembra di stare all’Eur di Roma – si alterna con quella del regime comunista di Enver Hoxha, e si affianca ai tentativi di modernizzazione liberalisti. Banche ovunque – su tutte Intesa Sanpaolo e Veneto Banca – in questa città dove chiunque parla o capisce l’italiano.
Ma qui non è più tempo di fughe dalla guerra civile che sconvolse il Paese al crollo del comunismo, a partire dal 1990: oggi l’Albania è in crescita, e vi si torna, o si arriva, per fare affari. Tirana affastella tracce del passato povero con grattacieli in costruzione, mette una a fianco dell’altra l’antica moschea e le campane della chiesa ortodossa: i musulmani (la maggioranza) vivono in un clima di pacificazione con i cattolici e con le altre religioni.
C’è un fermento culturale in questi giorni: un festival di letteratura e arte (ospite Saviano, e Giuseppe Catozzella), spettacoli e concerti in piazza. Ad accompagnarci lungo il “bulevardi Deshmoret e Kombit ” voluto a suo tempo da Mussolini è il giornalista e scrittore Alessandro Leogrande: a lui dobbiamo l’intenso libro che ha ricostruito la vicenda della “Kadër i Radës”, “Il naufragio”, pubblicato nel 2011. A Tirana, Leogrande è conosciuto e stimato: ha incontrato le famiglie degli scomparsi, ha fatto inchieste e interviste, e la sua lunga frequentazione dell’Albania si è trasformata presto in appassionata conoscenza della cultura e della storia di questo paese.
Ci indica la “Piramide” che doveva celebrare i fasti del regime comunista, oggi ridotta a rovina e finalmente riconvertita all’arte contemporanea; segnala la casa ormai abbandonata di Hoxha; infine racconta dello speronamento, di come sono andate le cose. Evoca le singole storie, dei dettagli, parla di quello che ha scoperto incontrando le vedove, gli orfani, i fratelli e le sorelle di chi era su quella nave, in cerca di speranza.
Storie, frammenti, emozioni, parole che ha raccolto poi nel libretto di Kadër i Radës, il naufragio, opera teatrale e musicale, commissionata nel 2014 dalla Biennale Musica guidata da Ivan Fedele alla compagnia Koreja Teatro di Lecce, con la regia di Salvatore Tramacere e le musiche di un compositore anomalo e raffinato come Admir Shkurtaj.
Admir è anche lui un “migrante”, è arrivato fuggiasco in Italia, e si è stabilito a Lecce: è un musicista (fisarmonicista) dalla cifra intensa, palpitante. Lo avevamo conosciuto anni fa, in uno spettacolo in cui spingeva la sua fisarmonica a sonorità estreme. Nel comporre la partitura di quest’opera, Admir Shkurtaj ha scelto un organico anomalo, ha creato situazioni assolutamente stranianti, scomode, vertigini sonore stridenti di metalli e impregnati però di tradizioni popolari (dal cupa-cupe salentino al coro polifonico albanese “Violinat e Lapardhase”, in costume tipico). Il pubblico viene attanagliato da quei ritmi sincopati, dalle distorsioni, dalle citazioni del miglior free jazz e di sonorità che evocano Bartok, Ligeti o Stockhausen.
Dopo aver debuttato all’Arsenale di Venezia, Kadër i Radës, il naufragio è arrivato a Tirana, in una prima nazionale dal forte valore simbolico. Nel teatrino in stile italiano anni quaranta, che ora è sede dell’Accademia delle Arti, si respirava una partecipazione emozionata e attenta, estremamente consapevole. Nel lavoro, diretto con grande sensibilità e poeticità da Tramacere, i bravi, giovani interpreti – tutti pugliesi – sono i migranti e i militari italiani; sono un “coro” di cinque donne, con i loro fardelli e i loro fagotti che, simbolicamente, diventano un mondo di poche cose da portarsi dietro, diventano i figli, diventano il velo di morte che avvolge tutti.
La parola è spezzettata, violentata, resa quasi onomatopea, italiano e albanese si mescolano in suoni incomprensibili, gutturali, in rumori che sono l’eco macabra del viaggio in mare. Le storie si intrecciano, si librano in gesti e frammenti poetici. Queste donne sono preoccupate, hanno fame, freddo, paura: devono pagare per salire, devono tenersi per non affondare, devono lottare per non morire di fronte alla nave della Marina italiana. Dice una di loro, disperata: «Tornare indietro… Vi pare facile? Fare marcia indietro… rientrare nei porti. Riannodare le corde. Scendere dalle navi. Ripercorrere il molo. Tornare nelle proprie case. Riaccendere le televisioni. Ascoltare gli spari, le urla, le sirene, le bombe».
Già, tornare indietro. Ma come si fa? E come fanno, oggi, i nostri cialtroni politici, dall’alto delle poltroncine degli studi tv in cui discettano e pontificano, a chiedere – senza memoria – di respingere quel flusso di uomini e donne in fuga dalla guerra, dalla miseria, dalla violenza? La domanda dovrebbe essere retorica, e invece non lo è. In sala, a Tirana, c’erano le autorità italiane (l’Istituto Italiano di Cultura su tutti, visto il ruolo centrale che ha in città), c’era il Ministro della cultura albanese, c’erano i parenti delle vittime. Alla fine dello spettacolo, dopo un commosso applauso, in un incontro improvvisato, informale e estremamente empatico, ha preso la parola la signora Pushime Cala, che nello speronamento perse marito e sorella. Il suo discorso, in albanese, era per me incomprensibile ma si avvertiva il dolore, la rabbia, il bisogno – ancora e sempre – di giustizia. Ho colto poche parole che suonavano come in italiano: “familiare”, poi “marina militare” e infine “tragedia”. Bastavano queste per evocare tutto quel che è accaduto. Poi, tutti si sono stretti in un abbraccio. Attori, cantanti, musicisti, pubblico. Koreja Teatro, da Lecce, a portato a Tirana, in Albania, un frammento di memoria: la nostra, quella che stiamo inesorabilmente perdendo.
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