Come prevedibile, probabilmente come auspicato da entrambe le parti, il dibattito sul ricovery fund cristallizza due tifoserie contrapposte. Succede ormai più o meno sempre, più o meno su tutto. Perfino sull’innocente scatto di Chira Ferragni agli Uffizi: figuriamoci se può essere esente una questione economica e politica fondamentale per il futuro dell’Europa, che tocca tutti i nodi più sensibili e dolorosi, potenzialmente letali, della sopravvivenza di questo organismo fragile e meritatamente controverso che chiamiamo Unione Europea.
Gli opposti schieramenti – interni ed esterni al perimetro della nostra opinione pubblica – finiscono col costruire lo specchio perfetto, l’uno per l’altro. Dal Nord (uno stato dell’animo, naturalmente) si profila al meglio la propria virtù guardando a sprechi e inefficienze dei tanti “terroni”. Dal sud si difende più facilmente il proprio modello sociale guardando la trave del dumping fiscale negli occhi degli altri.
Agevolmente, così, si evita di fare ciascuno la propria parte di doverosa e, se possibile, operosa autocritica e anche di comunitaria critica a un sistema – l’Unione, appunto – nato zoppo è cresciuto peggio. Perché sarebbe facile ricordare che fino a quando sarà possibile una così accesa e spregiudicata concorrenza fiscale tra stati non sarà possibile chiamare quest’Europa Unione. Ma questo imporrebbe sacrifici di sovranità che nessuno vuole fare, a nord, dove l’Europa si vive come un’associazione tra Stati che va bene fino a quando gli interessi dei singoli sono esattamente coincidenti (e quindi, quasi mai). E neanche a sud, del resto, se questo dovesse sostanziarsi in obblighi di una più razionale allocazione della spesa pubblica (non di spendere meno, sto scrivendo, ma di spendere meglio e pensando al futuro di un paese sulla via dello spopolamento e della marginalità: come il nostro).
Noi e Rutte dovremmo ammettere che non possiamo scagliare nè la prima nè la seconda pietra, e riconoscere entrambi che diverse cose non funzionano, a casa nostra, che non accetteremmo mai se, avvenendo a casa degli altri, comportassero un maggior costo per noi.
Ma, si sa, ci vorrebbe il coraggio di guardare lontano, la libertà di dire ai popoli la verità, la disponibilità a perdere un po’ di consenso oggi per restituire futuro a chi verrà dopo.
Tutte cose belle e grandi, che tra le classi dirigenti europee sono passate di moda ormai da decenni.
(immagine di copertina tratta dalla pagina Facebook di Giuseppe Conte)
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C’è poco da dire sofismi o fare il salomonico, altro che sbagliare entrambi, è accaduto un cataclisma (non terminato) e siccome l’Unione fa la forza è adesso che serve, la forza. Servono soldi e bisogna tirarli fuori a prescindere da chi e perché. I Paesi più danneggiati sono tali e non si può entrare nel merito, tra l’altro dono grandi e decisivi Paesi ma pure non fosse così sarebbe uguale. Non bisogna cercare di sapere ora se l’epidemia distruggerà Olanda o Austria in futuro, ne se Italia o Spagna impiegheranno male i Fondi, ora tocca elargire fondi perché c’è un enorme guaio comune. Punto. La barca europea è una e galleggia appena, serve aumentare motore e carburante, il resto signor Tondelli sono chiacchiere.
quoto al 100%. Leggendo i quotidiani sono nauseata dalla percentuale di giornalisti anti-italiani: magari potreste stare dalla parte del vostro paese una volta, tanto per vedere l’effetto che fa? Se vi fa tanto schifo l’Italia, cambiate cittadinanza. Ricordatevi che all’estero vi leggono, purtroppo, e che così danneggiate il Paese in un momento tanto delicato.