Sono appena finiti giorni tesi, giorni a loro modo epocali. Quelli che iniziano non lo saranno di meno, ad iniziare da un lunedì mattino in cui, come capitava nel pieno della tempesta finanziaria del 2011, aprivamo gli occhi presto per sapere, per capire, cosa dicevano “i mercati”. Questa entità torna ad occupare un posto centrale delle nostre paure, dei nostri dubbi. “Da domattina si balla”, ci diciamo in coro pensando agli umori delle borse mondiali, e i primi a ballare saranno i greci, che devono fari conti con la liquidità che non c’è e con i loro debiti che restano lì. A ballare però non saranno soli: insieme a loro c’è anzitutto la Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi, che deve inventarsi un nuovo “whatever it takes”, un nuovo motto e una nuova prassi per salvare l’Europa. La scorsa volta, quella promessa, nacque il quantitative easing. E ora, cosa potrà inventarsi Mario Draghi? E i tedeschi, nella loro persistente ottusità, comprenderanno che bisogna prendere sul serio quanto è successo e usare la politica e non solo l’aritmetica?
I piani si intrecciano. C’è l’economia pubblica europa, c’è il tema monetario all’interno di un’Unione “prosperata” attorno a troppi squilibri, e la possibile uscita della Grecia dall’Euro. C’è il tema geopolitico che impone – imporrebbe – di prendere sul serio la vicenda prima di trovarsi con una Grecia spinta fuori dall’Europa che diventa il porto privato della Russia di Vladimir Putin nel cuore del Mediterraneo. C’è il tema, fondamentale, di cos’è l’Europa e a cosa serve e di quali principi la debbano ispirare. E c’è e resta un tema, non meno importante, di sostenibilità delle economie nazionali: dovrà prenderlo sul serio la Grecia, per guardare a un futuro che non può essere sempre finanziato da potenze straniere che in cambio pretenderanno cambiali in bianco sempre più salate: in inglese europeo, in russo, o in cinese. Un tema, quest’ultimo, che oggi sembra solo greco me già oggi, e tanto più domani, è anche strettamente italiano.
E insomma, per tornare al punto centrale della storia, questa volta, oggi, ha vinto la democrazia. Ha vinto contro un’Europa parlante tedesco che, ancora una volta, aveva pensato di poter decidere sopra la testa di un popolo sovrano. Com’era successo in Italia nel 2011, allora con la forte cooperazione di un governo arrivato ad essere fattualmente “unfit” com’era quello guidato da un Silvio Berlusconi ormai logorato da anni e proclami non finalizzati, anche questa volta in Europa si pianificava un’operazione alla Monti. Ancora poche settimane, e Tsipras e Varoufakis sarebbero stati logorati quanto basta per essere sostituiti da un’operazione di “unità nazionale” guidata da un tecnico di fedeltà teutonica. L’operazione sarebbe stata preparata e sostenuta dalla stessa martellante propaganda che ha accompagnato anche la breve campagna referendaria di questi giorni. Tsipras, cui andrà riconosciuta qualche abilità politica, a questo punto, ha capito il gioco, ha giocato d’anticipo e ha vinto. Per distacco.
Ha vinto contro un’Europa che, ancora, non è riuscita a elaborare tutti gli errori infilati in questi anni riconoscendo il colpevole: cioè se stessa. Non si nega, qui, che i conti dei greci fossero truccati (con la volonterosa cooperazione delle istituzioni internazionali), né che il sistema greco sia fondato sul principio non sostenibile di una spesa sempre troppo superiore a quanto prodotto, o su un sistema industriale sostanzialmente inesistente. Ma non si può negare, in nessuna sede, che il default greco era già nelle cose anni fa, e tanto ne erano consapevoli dalle parti delle istituzioni internazionali e del fondo monetario internazionale da cambiare le regole per poter continuare a finanziare la finzione di una Grecia sostenibile, con una mano, mentre con l’altra strozzavano con strumenti di un rigore insostenibile i più poveri, in un paese povero.
Già, perché la favoletta della Grecia che “non fa i compiti a casa”, che spende e spande, è buona solo per chi non ha voglia di complessità. A questi tocca ascrivere anche la politica italiana, in particolare il nostro premier, che in un accesso di propagandismo facilone l’altrogiorno metteva in guarda i greci dal fatto che gli italiani non hanno nessuna voglia di pagare le baby pensioni greche, evitando poi di spiegare che quelle baby pensioni sono lì dai decenni, da quando governavano i colonnelli fascisti e non i socialisti alla Tsipras. Complicato, detto in un paese che le sue baby pensioni le ha, le considera diritti acquisiti, e non risulta che il governo Renzi si sia prodigato per eliminarle o bloccarle retroattivamente. Stesso dicasi per altri svariati esempi di spesa pubblica del tutto non proporzionale rispetto alla contribuzione geografica o generazionale: ora a sconsigliarlo è quel minimo di solidarietà umana che ci si aspetta da un governo di sinistra, ora tocca a clientele ereditate da epoche politiche remote, ora, infine, è un paese in recessione a non potersi permettere tagli alla spesa, cioè ai consumi, quei pochi che ci sono.
Il problema vero, adesso, è davanti a noi ed è purtroppo più grande dell’inadeguatezza delle posizioni prese dal governo “socialdemocratico” del più importante paese del mediterraneo, cioè l’Italia. È un problema di tenuta dell’Europa, di capacità di parlare la lingua della democrazia, di prendere sul serio la scelta di un paese in cui, stando ai numero, ha votato “no” non solo chi non ha niente da perdere – i disoccupati e i non-patrimonializzati – ma anche pezzi importanti di classi medie greche. Anche loro hanno detto no. C’è da augurarsi, per il bene della Grecia, che Tsipras non dimentichi che le riforme servono alla Grecia anche se Berlino ha meno presa e potere di ricatto. C’è da sperare che la Germania impari dalla storia, come già ha saputo fare in passato, e dai suoi errori, e capisca che affamare intere generazioni incolpevoli dei debiti dei padri non ha mai portato al meglio. E, infine, c’è da pregare – ognuno con la sua fiducia, laica o religiosa che sia – che l’unico italiano che conta davvero qualcosa mostri creatività, coraggio, indipendenza, capacità politica. Senza queste doti, senza una Bce così, sarà un disastro. E non sarà stata colpa dei greci, neanche questa volta.
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.
Caro Jacopo, un bell’articolo. Tuttavia non credo che sussista un legame tra la Germania e la fame dei greci. Mi sembra che esageri un po’ il ruolo dei tedeschi, nel male, questa volta.
Non vedo nemmeno un legame tra l’esito del referendum (che ritengo pianificato democraticamente male e usato solo strategicamente bene) e “la presa” di Berlino. Ho invece l’impressione che l’economia sia andata un po’ fuori controllo.
Non sono d’accordo sul giudicare “ritorno della democrazia” un referendum organizzato in fretta e furia da un premier che non s’è assunto la responsabilità di svolgere il compito che gli è stato affidato dagli elettori.
La democrazia rappresentativa è l’opposto di mettere una scelta tanto tecnica nelle mani di un popolo sofferente, incompetente sulla materia e manovrabile con grande facilità.
Tsipras domani potrà prelevare denaro e mangiare a sazietà, quanti dei greci oggi festanti potranno farlo? Per questo – forse – bisognerebbe invece chiedersi cosa c’è da festeggiare, sia in Grecia (ma qui ci sta la voglia di scaricare la tensione con un successo, anche se più effimero di una crisalide), sia (ed è peggio) da noi, dove schiere di sbandieratori biancazzurri inneggiano alla “vittoria del popolo greco sulla troika” come farebbero dopo il derby, senza però avere la più pallida idea di cosa sia e come funzioni l’infrastruttura economica dell’Europa.
Più che un referendum, un plebiscito, nel perfetto stile nazional-comunista-populista che sembra unire gli estremi greci. E dopo la vittoria la delusione, visto che un accordo lo stanno cercando, ma sembra ora più lontano.