Anche in Spagna si fa largo la polizia del pensiero, è dovere protestare
Viviamo nell’era delle facili soluzioni, dei pessimismi cosmici, dei cialtroni che si credono leader. Corbellerie, pregiudizi e luoghi comuni regnano su giornali e nel dibattito politico. Grillo, Tsipras, Podemos. Salvini diventa un leader. Peggio di cosi si muore.
Ma il risvolto più preoccupante, il vero spettro che si aggira per le democrazie di tutta Europa, il vero terrorista si chiama politicamente corretto. Si tratta della polizia del pensiero che ci vuole tutti benpensanti, tutti ugualmente buoni. Siamo contornati da divinità morali che indicano il cammino. Infatti:
se dici che l’immigrazione va gestita e controllata, diventi un razzista. Se parli in favore del matrimonio tra uomo e donna e cerchi di argomentare che quello tra uomo e uomo (o donna e donna) è diverso, sei un omofobo. Se dici che il sistema giudiziario italiano è pieno di falle e che i magistrati non fanno sempre bene il loro lavoro, sei un connivente della malavita. Se dici che la costituzione non è perfetta in tutti i suoi punti e andrebbe in parte rivista, sei un pericoloso dissidente. Se fai notare che è difficile dividere il terrorismo dall’islamismo, sei un occidentale retrogrado. Se cerchi di far comprendere che in Italia esiste un’evasione fiscale necessaria per sopravvivere, sei un delinquente evasore.
Sempre più spesso politici, intellettuali, artisti, giornalisti (e presunti tali) si impegnano in lezioni di morale di questo tipo. Vogliono dirci cosa pensare e come agire. La banalità e velocità dei social network amplifica tutto questo clamore e chiude la bocca a chi cerca di farsi portavoce di una diversa visione delle cose. Troppo difficile diventa argomentare contro chi bolla moralmente ogni argomento fuori dal coro. L’etichettatura morale diventa un arma contro il dialogo.
Il M5S ha portato questo modo di vedere le cose in parlamento: loro sono gli onesti. Gli altri sono i mafiosi. Non si argomenta nulla. Niente si propone. La superiorità è di natura morale. Punto.
Ma la questione non si ferma qui. Anzi. Questo modo di vedere le cose diventa spesso legge. La Spagna è solo l’ultimo esempio:
in Francia la giacobina Charte de la laïcité voluta dal Ministro dell’Educazione Vincent Peillon impone un pensiero unico in cui la laicità diventa la religione di stato. L’art.11 impone agli insegnanti di “essere totalmente neutrali: non manifestare le proprie idee politiche e religiose”. Per paura di offendere qualcuno non si può dire nulla di nessuno.
In Italia si propongono leggi il cui testo recita “sulla scia degli episodi di omofobia e transfobia, che hanno funestato il nostro Paese negli ultimi anni, etc. etc. etc.…”. Tra questi episodi ci sarebbero anche le esternazioni di un imprenditore non libero di dichiarare che “non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono purché non infastidiscano gli altri”. Scomposto? Non attento a questioni di marketing? Forse si. Ma perchè mai fuori legge?
In questi giorni è arrivata la Spagna. Si tratta di una legge chiamata Legge di Sicurezza Cittadina. La sua applicazione ha recentemente punito con delle multe i seguenti comportamenti: non si può scrivere su FB che la polizia è una “casta di pigri”; non si può chiamare un poliziotto “amico”; non si può criticare pubblicamente un politico; non si può fotografare un’auto della polizia in sosta vietata.
Per quale motivo sta prendendo piede la moda del bavaglio moralistico. Perché le democrazie vanno nella direzione di bloccare il dialogo, ammutolire le diversità e il confronto? Perché gli intellettuali si ergono a paladine della morale (la loro)?
Difficile dirlo. Roba da sociologi. Ma una cosa da dire c’è: imporre un linguaggio e un pensiero unico è caratteristica dei regimi totalitari. La vita democratica dovrebbe essere altra cosa: dialogo, scontro, polemica, protesta. Conflitto regolato e istituzionalizzato. Dovrebbe essere convivenza di valori e credenze diverse, anche inconciliabili; ma che cercano di rispettarsi e convivere. In tanti ci hanno parlato di queste degerazioni della vita democratica:
Nel 1987 Françoise Thom pubblicava un testo dal titolo La langue du bois (la lingua di legno). La tesi che difende l’autrice, esperta di storia dell’unione sovietica e docente alla Sorbonne, è propria questa: caratteristica dei regimi totalitari è il tentativo di imporre un pensiero totalitario. Analizzando la lingua della Russia pre-rivoluzionaria e della Russia bolscevica Thom avanza la tesi che per realizzare un potere assoluto e totalizzante, un potere in grado di “elevarsi” dalla realtà con l’intenzione di plasmarla a suo piacimento, è necessario costruire una lingua nuova. Una lingua che impedisca il più possibile il pensiero, la critica razionale e il dialogo.
“La parola è stata donata all’uomo per nascondere il suo pensiero” scrisse Stendhal come incipit di un capitolo de Il rosso e il nero, riportando una frase di Gabriel Malagrida, missionario gesuita italiano bruciato a Lisbona il 21 settembre del 1761.
Anche George Orwell ci racconta bene le pericolosità della manipolazione linguistica da parte del potere. I suoi risvolti dispostici a livello politico e umano. In un passaggio famoso di 1984, quando parla della Neolingua scrive: “Noi le parole le vogliamo distruggere, a dozzine, a centinaia. Giorno per giorno stiamo riducendo il linguaggio all’osso. [..] Non capisci che lo scopo principale della Neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero? [..] Ogni concetto sarà espresso con una sola parola”.
Da par suo François Truffaut racconta, ispirato da Bradbury, un’immaginaria società nella quale per imporre il controllo politico si eliminano le parole mirando ad impoverire gli scambi umani: books are nothing to say!.
Tutti questi autori ci raccontano che i tentativi di creare un pensiero unico sulla base dell’impoverimento del linguaggio è il sogno di qualsiasi utopia totalitaria e, aggiungiamo pure, la più profonda negazione delle conquiste liberal-democratiche. Infatti dovrebbe essere chiaro a tutti che la democrazia è soprattutto il tentativo di garantire la libertà di pensiero e di difendere una visione del cittadino padrone e responsabile dei propri valori e delle proprie decisioni.
Il problema della forma mentis citata in apertura e dei testi di legge a questa ispirati sta, quindi, nello loro spirito. A prima vista esso appare democratico e liberale quando invece è profondamente antidemocratico. Orwell l’avrebbe definito dispotico. È antidemocratico poiché spinge i cittadini a chiudere la bocca riguardo a certi problemi. Placa la polemica e la protesta. Porta certi argomenti a diventare tabù. Sanziona delle opinioni. Avere determinati valori ed essere portatori di un credo, qualunque esso sia, non può significare, in democrazia, volerli imporre agli altri.
Concludo specificando un punto delicato che potrebbe essere causa di equivoco. La storia politica delle nostre società ci permette di osservare un allargamento sempre maggiore delle sfere dei diritti individuali. Sempre più le minoranze vengono protette e rese oggetto di diritti. In una parola potremmo dire che si sta producendo quel processo che Max Weber chiamava di “razionalizzazione diffusa”: le democrazie stanno lentamente e difficilmente evolvendo verso la difficile e oscillante realizzazione del loro principio fondamentale: il rispetto della dignità e dell’autonomia individuale (non a caso oggi si pretendono diritti e dignità anche per gli animali).
In questo senso è d’obbligo difendere e lottare per i diritti delle persone di qualsiasi orientamento sessuale, religioso e per qualsivoglia minoranza. Lottare significa anche impedire le discriminazioni. Tutti devono essere trattati con la medesima dignità e devono avere i medesimi diritti. Ma tutti ugualmente liberi non può significare tutti uguali. Compito del potere democratico è quello di esaltare le differenze, permettere che esse possano confrontarsi sulla base della loro diversità e delle ragioni che hanno per difendere la loro visione della società e della vita.
Questo non lo si fa certo imponendo velatamente una banale uguaglianza tra tutti i modelli di famiglia o tra tutte le religioni; inventando problemi e emergenze sulla base di gusti personali; promuovendo etichette come genitore 1 e genitore 2; introducendo nel dibattito e nelle leggi un linguaggio che divide il mondo tra eretici e fedeli.
Quando si cerca di rendere il linguaggio arma del potere e non più strumento di analisi della realtà e di dialogo, è bene iniziare a protestare. Tutti i tentativi legislativi miranti a creare per decreto un linguaggio, a denunciare una certa visione delle cose, a punire opinioni, in democrazia, puzzano di marcio.
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