“Ho tanta voglia di scrivere e tante idee”: Lorenzo Amurri rimarrà con noi

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12 Luglio 2016

È morto questa mattina all’ospedale Regina Elena di Roma, Lorenzo Amurri, scrittore, musicista, sceneggiatore, produttore. Aveva 45 anni, e una malattia incurabile. Non ci saranno i funerali, come da sua indicazione. Per sé voleva una festa. Lo ricordo pubblicando un’intervista che ho avuto il piacere di fargli in un giorno di marzo 2014, e originariamente pubblicata qui: http://www.lostivalepensante.it/2014/03/21/intervista-lorenzo-amurri-puoi-essere-totalmente-paralizzato-letto-essere-completamente-libero/.

“Scusami ma sono un po’ rincoglionito, stanotte ho seguito la cerimonia degli Oscar…”, era cominciata così la mia conversazione con Lorenzo Amurri, in quel giorno di marzo 2014. Non aveva ancora guardato La grande bellezza di Paolo Sorrentino: “sai quando ti dici: lo devo vedere, lo devo vedere e poi non lo fai mai?”, e io non gli ho più chiesto se lo avesse fatto. Lorenzo era riuscito ad entrare tra i dodici finalisti del Premio Strega 2013 con il suo romanzo d’esordio, Apnea. Amante del musical Hair perché “ha determinato il fatto che sia diventato un fricchettone”, ma anche di Kubrick, non mi stupì che ascoltasse ancora i Pink Floyd e i Jane’s Addiction. Questi ultimi, mi disse, “hanno inaugurato una nuova era musicale quando avevo vent’anni”. La musica era la sua vita, stravolta poi da un incidente avuto sugli sci a soli ventisei anni. Seduto su una sedia a rotelle, quella che gli permetteva di condurre una vita normale, ormai da sedici anni, Lorenzo aveva scelto di raccontare la sua storia, scoprendosi uno scrittore. Quando finì di legger A ovest di Roma del suo autore preferito, John Fante, decise che avrebbe dovuto scrivere anche lui. Dopo Apnea pubblicò Perché non lo portate a Lourdes, viaggio ironico e laico nella terra dei miracoli. “Ho tanta voglia di scrivere e tante idee”, mi disse solo qualche mese fa. Oggi se ne è andato, aveva solo quarantacinque anni e uno sguardo che difficilmente riuscirò a dimenticare.

Lorenzo, da dove nasce la passione per la scrittura?
È una cosa che è nata gradualmente. Sono sempre stato un grande lettore. È nata un po’ casualmente, per gioco. Ho aperto un blog e ho cominciato a descrivere ciò che succede a un disabile nella vita di tutti i giorni, raccontando cose serie in chiave ironica. Fa parte della mia famiglia l’ironia. All’inizio, mi leggevano solo i miei fratelli e sono arrivati da loro i primi commenti. Erano tutti entusiasti del fatto che io sapessi scrivere. La musica era il mio modo di esprimermi e non avevo mai provato a farlo scrivendo. Mi dicevano invece che scrivevo bene. Ho cominciato a scrivere poesie e in seguito racconti. E, a un certo punto, ho deciso di mandarli a una mia grandissima amica scrittrice, Valeria di Napoli, Pulsatilla. I primi me li ha bocciati sbuffando, poi gliene ho mandati un’altra serie ed è stata lei a dirmi: “Guarda che qui c’è materiale per un romanzo”. Era già da un po’ di tempo che scrivevo nel blog… Sai, più scrivi più migliori. La scrittura è un allenamento come tutte le discipline artistiche. Pulsatilla, così, mi ha consigliato e convinto a scrivere un romanzo, io non credevo nemmeno di esserne in grado. Capitolo dopo capitolo però mi sono fatto convincere ed è venuto fuori Apnea.

Quindi il romanzo nasce anche da questi racconti?
Sì, di quelli che le avevo mandato, uno è diventato il primo capitolo di Apnea e un altro uscirà invece come Extra del mio prossimo libro. È un racconto particolare, narra di una specie di metamorfosi al contrario: mi sveglio nel mio letto, succedono tante cose ed io non sono più disabile, ma alla fine decido di rimettermi a letto e sperare di ritornare disabile. Comunque, non c’è stato niente di programmato. Evidentemente avevo bisogno di esprimermi in un certo modo e ho trovato una via nuova per farlo. Io suonavo. Le note erano il mio alfabeto in realtà. Prima non avevo mai scritto nulla.

A parte i temi a scuola, immagino…
Ero un disastro io a scuola. Però insomma, se è andato male Pennac a scuola, possiamo permetterci di andare male tutti. È ovvio che devi essere anche un pò portato per le cose… C’è gente che può stare lì a suonare la chitarra anche cento anni di fila ma se non è portata di base poi non arriva da nessuna parte.

Nel libro, racconti tutto della tua esperienza, dalla mattina dell’incidente sulle piste, al momento in cui ti sei reso conto che forse era giunta l’ora di “tornare a galla”. Racconti molto bene il dolore, quello fisico, dato dai molti interventi a cui ti sei dovuto sottoporre e quello psicologico. Lo fai con una chiarezza devastante, quasi come se lo stessi vomitando…
Allora, quando uno intraprende un percorso in cui scrive di sé e decide di raccontare la sua storia, è fondamentale che essa sia totalmente sincera e priva di fronzoli. Io ho deciso di raccontarla in ogni suo aspetto, crudo, duro, difficile. Poi in un certo senso sono fortunato, perché non ho il senso del pudore, non me ne frega niente, sono un fricchettone e mi piace girare nudo… Non ho avuto problemi a essere il più sincero e diretto possibile. Certo, ho cominciato a scriverlo dopo quattordici, quindici anni dall’incidente. I conti con quest’ultimo li avevo già fatti, evidentemente però ancora non del tutto, se ho sentito il bisogno di scriverne. Come potrai immaginare, è stato un lavoro di autoanalisi. I ricordi diventavano molto concreti, quindi non è stato facile, mi dovevo fermare e metabolizzare quello che avevo scritto, pensarci. Insomma, rivivere tutte quelle situazioni è stato difficile, quindi si mi è servito, dovevo ancora chiudere un cerchio…

Per cui scriverne è stata un’esigenza?
Probabilmente sì. I motivi però sono stati tanti. Il libro l’ho scritto molto per Johanna. Lei mi è stata accanto in una situazione difficilissima quindi sai… È come la cosa di cui parlavamo prima, è come per La grande bellezza, lo devi vedere ma non lo vedi mai… Allo stesso tempo, ci sono molte cose che uno non dice ma che a un certo punto vanno dette. Inoltre, volevo mettere un pò di luce su quello che succede a una persona che ha un incidente e si ritrova paralizzata in sedia a rotelle, perché nessuno sa bene il duro lavoro fisico e psicologico che c’è dietro. Nemmeno io lo sapevo prima di avere l’incidente, c’è molta ignoranza su questo. La carrozzina viene vista come l’incubo, in realtà è il premio che si riceve per continuare a vivere. Mi premeva far riflettere le persone su quest’aspetto. Anche per una questione d’integrazione sociale.

Doloroso e ricorrente in Apnea è il tuo rapporto con la musica, in seguito all’incidente. Scoprirai di non poter più usare le mani come prima, quindi, ti sarà negata la possibilità di suonare la tua amatissima chitarra. Qual è oggi il tuo rapporto con la musica?
Quella era la mia vita. Oggi il rapporto con la musica è diverso. La tragedia per me non è stata tanto il fatto di non poter camminare, a me di quello non fregava molto, m’importava di suonare, quindi per me il problema è stato quello delle mani all’inizio…

Ti è stato detto dopo, vero?
Sì, in realtà però lo sai inconsciamente, solo che non puoi ancora ammetterlo, non puoi rendertene conto pienamente e coscientemente. Ci vuole tempo. Inizialmente non riuscivo proprio più ad ascoltare musica, perché tutto mi ricordava che non potevo più suonarla, poi dopo è subentrato un nuovo modo, con l’uso dei computer. Ho aperto anche uno studio di registrazione, ho fatto delle produzioni musicali, quindi diciamo che ho trovato il mio modo per rimanere dentro a quel mondo. Comunque, era ed è tuttora un modo diverso, che ti da grandi soddisfazioni ma non quanto suonare. Forse questa cosa della scrittura è legata anche a questo. In studio ho bisogno di aiuto fisico, non riesco a fare tutto autonomamente, mentre la scrittura è una cosa che riesco a fare completamente da solo, non ho bisogno di nessuno. Probabilmente avevo bisogno di trovare uno sbocco artistico che mi permettesse di fare le cose in autonomia ecco. In ogni caso la mia passione primaria è sempre comunque la musica, non potrei farne a meno. Professionalmente non mi dedico più ad essa perché non c’è niente che mi appassiona veramente tanto per continuare a farlo. Lo studio l’ho chiuso. Ero stanco di andare lì e di lavorare sui cliché banali delle canzoni, cioè strofa, bridge, ritornello… Se trovo una cosa che mi attira da un punto di vista sperimentale artistico diverso invece la faccio.

Hai partecipato anche al Festival “Hai paura del buio” degli Afterhours. Com’è stato?
Sì sì, hanno chiesto a Niccolò (Fabi, ndr), che è un mio caro amico, di fare qualcosa insieme a qualcuno particolare, così lui mi ha proposto di partecipare. Mi ha chiamato la scorsa estate mentre ero in vacanza e gli ho detto assolutamente di sì. È stato molto divertente.

Oggi, del panorama musicale italiano, c’è qualche musicista che ti piace?
Trovo che sia un bravissimo cantautore Riccardo Sinigallia, al di là dell’amicizia che ci lega. Mi piace molto quello che scrive e che suona anche Niccolò (Fabi), ma lo ascolto di meno, ascolto di più Riccardo. Poi, un altro che mi piace molto ma che è ancora poco conosciuto è Pino Marino, andrebbe valorizzato di più. Lui, ha fatto moltissimi dischi ma non ha avuto ancora il riconoscimento che merita. Io sono vecchio stile, ascolto ancora “i vecchi” ma con Spotify mi diverto perché, offrendoti i suggerimenti correlati a quello che ti piace, ti permette di scoprire cose nuove e interessanti. Se no, personalmente, di nuovo vedevo ben poco. Il nuovo conosciuto trovo non abbia niente di così originale.

Sul web è girato un video che ritraeva Riccardo Sinigallia cantare in pubblico il pezzo in concorso al Festival di Sanremo. Questo gli ha causato l’esclusione dalla gara canora. Osservando il video, mi è sembrato di vederti su quel palco con lui. Eri tu l’amico per cui aveva suonato l’inedito?
Eh sì, sono un minimo responsabile. L’amico che gli aveva chiesto di suonarlo ero io. Eravamo ad un festival molto bello a Cremona dove gli organizzatori invitano uno scrittore e un cantautore sul palco. Lo scrittore presenta il libro e il cantautore si esibisce. Ci hanno messo insieme perché tra noi c’è una storia di amicizia profonda, abbiamo vissuto insieme. È stata una cosa veramente molto emotiva, perché in passato noi suonavamo insieme e trovarci sullo stesso palco è stato un momento molto importante. Poi lui non sapeva ovviamente che sarebbe andato a Sanremo con quella canzone… Mi è dispiaciuto ma comunque il Festival non lo avrebbe vinto, purtroppo. A Sanremo vince Sanremo. Non se ne esce. Comunque, io non sono un amante del Festival ma l’ho guardato quest’anno perché c’erano Riccardo, Frankie hi-nrg e tra i giovani Diodato, che mi è piaciuto moltissimo.

Come dicevi, la scrittura è una cosa che riesci a coltivare in autonomia. È stato molto difficile per te imparare a dover chiedere così tanto aiuto?
Molto, molto difficile, quella è stata una delle cose più difficili. Io poi ero uno che non chiedeva aiuto mai. Ero abbastanza “orso”. Ho dovuto imparare a chiedere aiuto. Prima, tu pensi di disturbare il tuo prossimo e non vuoi essere un peso per gli altri, quindi tendi a non chiedere. Invece, in realtà, devi imparare che non solo hai bisogno di chiedere, quindi devi farlo, ma anche che la gente è disponibile ad aiutarti. Basta chiedere nel giusto modo e le cose arrivano, tutti te le fanno. Io che non mi esprimevo a parole ma con la musica, ho dovuto imparare proprio a “parlare”. Quando sono andato a “Le invasioni barbariche” i miei fratelli erano terrorizzati, pensavano: “oddio questo adesso non parla”. Invece ero totalmente rilassato. L’ansia del mese precedente a me era passata, ce l’avevano gli altri, io no. Devo dire che adesso mi trovo bene quando devo parlare con le persone, nei programmi tv, nelle presentazioni, mi diverto. Alla fine volevo fare la “rockstar” e in un certo senso ci sono riuscito. Questa è un’altra cosa che ho scoperto grazie all’incidente. Le cose non succedono mai per caso. Evidentemente se mi è successa una cosa è stato perché me ne dovevano succedere delle altre. E il fatto di riuscire a comunicare e a far arrivare un certo tipo di messaggio, è stata una bella sorpresa.

La sofferenza e la disperazione portano spesso a sviluppare egoismo e a chiudersi nei confronti degli altri. Leggendo il libro si avverte chiaramente la tua fatica a relazionarti con le persone che ami…
La fatica io la facevo già prima… Se uno non ama se stesso, difficilmente riesce a farsi amare dagli altri e ad amare gli altri. La sofferenza porta con sé naturalmente l’egoismo perché tu pensi solo a te stesso, pensi che la cosa che ti sia successa, sia la più grave del mondo e in quel momento lo è, non hai altri parametri. La chiusura è una naturale conseguenza. Comunicare il tuo stato d’animo rispetto a una situazione del genere a chi non la vive è difficilissimo. Dunque, la comprensione, non ce l’ho neanche adesso. Evito sempre di parlare dei miei acciacchi, sia fisici che psicologici. Molte volte, quando mi chiedono come sto, dico che sto bene, anche se non è così. Lo faccio perché sono consapevole che fino a un certo punto si può capire ma non fino in fondo. La comunicazione a certi livelli è difficile. Poi, nel momento in cui decidi che vuoi andare avanti, automaticamente apri una porta e da quella porta possono arrivare gli aiuti, la comprensione, l’empatia. Ma fino a quando tu rimani chiuso, nessuno ti può aiutare, tantomeno le persone che ti vogliono bene. Inverosimilmente, riesce più un estraneo a toccare dei tasti che ti stimolano perché lui non ha niente da perdere, le persone che ti amano invece hanno molto da perdere. Io dico sempre che l’incidente non l’ho avuto solo io ma l’hanno avuto tutti, anche quelli che mi stavano intorno. Io ho dovuto imparare a vivere in una condizione nuova, gli altri a comunicare rispetto a questa condizione. Ci vuole tempo e non tutti tralaltro ci riescono. Ho visto gente che da un secondo all’altro capiva la situazione e reagiva in un certo modo, gente che ha avuto bisogno di tempo e gente che non c’è mai riuscita. Io ci ho messo almeno due anni. Ci sono poi quelle frasi retoriche terrificanti che le persone ti dicono come: è successo a te perché tu sei in grado di sopportare questa situazione… Col cazzo! Non è così. Succede anche a chi non ci riesce a sopportarla. Di sicuro io ho un carattere determinato. Ho deciso di andare avanti e l’ho fatto, mi sono ricordato chi ero. La personalità di fronte a un trauma del genere si azzera e tu devi ricostruirla. Io non sono d’accordo con chi dice che è una nuova vita… La vita è la stessa, deve continuare e il segreto è che tu devi ricostruire la tua personalità e piano piano ricordarti di chi eri, di come reagivi e poi puoi migliorare o peggiorare. Nel senso, non è che un disabile è per forza buono. Un disabile può essere anche stronzo.

Tu, infatti, non risulti sempre “buonissimo” leggendo Apnea…
Ma in realtà io sono perfino troppo buono. Solo che ero abituato a vivere la mia vita in un certo modo e non mi stava bene che me la stravolgessero completamente, quindi è venuta fuori la mia personalità. Non ero però lo stronzo da tenere alla larga. Anzi, c’era il primario dell’ospedale di Zurigo, che si divertiva come un pazzo, gliene combinavo di tutti i colori, gli ho messo veramente a soqquadro un reparto. Sono riuscito perfino a far cambiare gli orari in Svizzera. Ci sentiamo ancora con gli altri della clinica. Ultimamente, raccontavo loro di Apnea e prendevo in giro il primario, perché per un errore di stampa nel libro è rimasto dottor Kurt, invece si chiama Curt, con la C. Lui mi ha scritto una lettera carinissima, in cui mi diceva che aveva avuto a che fare con migliaia di pazienti ma che una persona coraggiosa, pazza e simpatica come me non gli era mai capitato di conoscerla. Ci siamo presi, è una persona ironica e si divertiva a vedere come mettevo in difficoltà i “poveri” infermieri.

Alcuni passaggi del romanzo effettivamente sono ironici, divertenti…
Si, trovo che l’ironia e la leggerezza siano il modo più sicuro per far arrivare le cose, perché se tu ti metti lì a fare autocommiserazione, la gente molla il colpo. L’ironia serve per andare più a fondo, senza farti avvertire la pesantezza della situazione. La profondità degli eventi è trattata in un modo in cui tu la puoi accettare. Certo, non c’è stato nulla di programmato, il libro l’ho scritto così con naturalezza. La disabilità poi si presta a tantissima ironia e sarcasmo, perché non coglierli?

Tra i taboo che rompi in Apnea c’è quello del sesso. Se n’è parlato moltissimo dopo l’uscita del romanzo…
A me sembra allucinante che ancora sesso e suicidio siano considerati taboo, forse è una questione di falso moralismo, inculcato da centinaia di anni di religioni. Non capisco proprio perché il sesso debba essere stigmatizzato come una cosa di cui è vietato parlare. È una delle cose più belle del mondo e che facciamo tutti. La gente deve capire che se ne può parlare normalmente, è anche divertente parlarne. Deve diventare un argomento semplice da affrontare. Viviamo ancora con persone che non fanno sesso prima di sposarsi, è abbastanza grave. Inoltre sembra davvero che un disabile sia asessuato, non è così. Un disabile ha gli stessi bisogni che hanno tutti gli altri rispetto al sesso, semplicemente, magari, lo vive in maniera diversa. Io ho dovuto imparare un nuovo tipo di approccio al sesso che però non è meno soddisfacente di quello che facevo prima. Basta trovare la chiave giusta e capire quello che ti fa piacere. Poi, far provare piacere alla propria partner ti provoca anche un piacere molto intenso, quindi…

Tu ne scrivi del sesso in modo profondo ma anche in chiave ironica, raccontando di come tuo fratello si premurò di tranquillizzarti sulle tue possibilità ancora concrete di avere rapporti sessuali…
Bè, mio fratello poteva attaccarsi soltanto a quello, nel contesto della tragedia totale, ma a me non fregava niente. Per lui era una cosa positiva che potessi ancora avere rapporti, per me no. Però aveva ragione, era ed è importantissimo. Inizialmente è una situazione tragica perché non sai come affrontarla. È come la prima volta che fai l’amore con una persona, sei impacciato, non sai cosa accadrà. L’approccio inoltre cambia totalmente. Ti crei delle false barriere, perché non hai conoscenza piena della tua condizione e hai paura. Piano piano poi ti rendi conto che le paure sono costruite dal tuo cervello e non hanno ragione di esistere.

Non pensi che, spesso, le persone che vivono una condizione di disabilità, si neghino il sesso per timore ma anche per disinformazione?
Credo che oltre al fatto che se lo neghino loro, gli venga spesso negato dalla società. Sono completamente a favore dell’assistenza sessuale, perché io sono fortunato, la mia assistenza sessuale me la posso procurare da solo, invece, c’è chi non ha questa fortuna. E il sesso è una valvola di sfogo non indifferente. Il fatto di non poterlo fare ti crea uno scompenso chimico fisico mentale non da poco. Sai, il disabile, qui in Italia è ancora visto come quello che sta in casa con la copertina sulle gambe, curato dalla mammina o dalla zia. Sono a conoscenza di madri che sono costrette a portare i figli da prostitute o che sono loro stesse a dover compiere determinate “operazioni” per far sfogare loro quel lato represso. È inammissibile pensare che una persona anche con problemi mentali non abbia quel bisogno fisico.

Nel blog racconti ironicamente le tue disavventure legate alla ricerca dell’assistente perfetto. Sei tu troppo esigente o gli assistenti inadeguati?
Io non nascondo la mia esigenza giustificata ma sembra che lo facciano apposta ad arrivare personaggi assurdi. Quando incontri una persona che si propone per il lavoro di assistente, devi chiedergli anche le cose più banali, perché non sono così scontate. Potrei scriverci un libro e lo intolerei “Quasi Nemici”. Ultimamente ho trovato una persona che sembra andare bene, ma durante la promozione di Apnea ne avevo uno per cui ero io il suo assistente e non lui il mio, dovevo stare attento a tutto e non potevo mandarlo via per mancanza di tempo. È stato terribile. Una volta, ne ho avuto uno in prova e gli ho detto: “guarda sui fornelli in cucina, c’è un pentolino con del riso e della carne, vai a prendere il pentolino che diamo da mangiare al gatto”. Vedo che non torna, così vado in salotto e lo trovo davanti alla libreria con lo sguardo perso nel vuoto. Mi giro e mi dice: “cosa sono i fornelli?”. Capisci cosa intendo quando dico che devi chiedere tutto? Ormai mi faccio spiegare persino il procedimento per cucinare qualcosa, li guardo e dico: “ora spiegami come si fa la pasta al pomodoro!”. Un altro ancora, dopo un’intervista di un’ora, mi chiama e mi dice: “Scusi Lorenzo ma le volevo chiedere, lei può camminare?”. Assurdo. La gente è pazza. Quello di cui parlo nel blog invece, che mi mandava messaggi minatori (lo stalker), lo avevo preso in prova ma non lo avevo assunto perché non era in grado. Così ha cominciato a tempestarmi di chiamate, messaggi, sembrava gli avessi rovinato la vita ma se non era capace, cosa potevo farci io? Per fortuna ha smesso.

Che rapporto dev’esserci con chi ti assiste quotidianamente?
Un rapporto molto intimo ma devi sempre ritenerlo come un lavoro. Deve esserci la giusta distanza tra me e il mio assistente, quella che permette a lui di lavorare bene. Non c’è spazio per l’amicizia, io devo sempre restare il suo datore di lavoro. Non è sempre facile ma ci provo.

Hai letto ciò che è accaduto alla scuola Albert Steiner di Milano? Una ragazzina è stata accusata dai compagni di classe e dai genitori di questi ultimi di essere d’intralcio per le attività scolastiche, come le gite. Hanno addirittura consigliato alla madre di portarla in un istituto speciale. Cosa bisognerebbe fare per far sì che cose come queste non accadano?
Credo che sia agghiacciante ciò che è successo, è contro ogni tipo d’integrazione, di logica, c’è un problema di sinapsi celebrali che non funzionano. Facciamo il ghetto? Mettiamo disabili con disabili e li lasciamo là? Sembra una cosa da terzo reich. I docenti e gli organizzatori dovrebbero mettere tutti in condizione di poter partecipare alla gita. Di genitori poco sensibili al tema della disabilità poi, purtroppo ce ne sono tanti. La maggior parte, in questo senso, sono dei poveracci. Per provare a risolvere il problema, bisognerebbe innanzitutto partire proprio dalle scuole e dai bambini, ripristinando l’educazione civica e rendendola una materia importante ugualmente alle lettere, come succede in Inghilterra. Andrebbe studiata seriamente e più ore a settimana. Gli adulti sono ormai cresciuti, hanno una loro formazione, invece i bambini sono aperti, imparano velocemente, non sono fissati sull’esperienza. Se un bambino a scuola comprende che la disabilità ha bisogno del suo spazio e quando va a casa si arrabbia con il genitore che non la rispetta, quest’ultimo lo ascolta. È fondamentale ripartire da qui. La questione è culturale, non strutturale.

L’insensibilità al tema della disabilità come problema culturale, infatti, si concretizza in ogni aspetto della nostra società, da quello legato alle discusse “barriere architettoniche” a quello inerente all’educazione civica. Cosa ne pensi?
In Francia e in Inghilterra, per esempio, il problema delle barriere architettoniche non esiste. L’attenzione alla disabilità è normale, è dentro alla loro cultura. Qua in Italia no. Roma poi è una città disastrata, devi avere coraggio per uscire di casa. Trovi il marciapiedi con la salitina per la sedia a rotelle da una parte, ma senza discesa dall’altra. Gli autobus non sono muniti di pedane e se le hanno gli autisti non si fermano a caricarti perché perdono tempo. La metro è inaccessibile. Le macchine parcheggiano sulle discese o nei parcheggi riservati ai disabili. Culturalmente non si da peso a questa situazione ma è problematica. I vigili quando sono chiamati per far spostare una macchina o multare qualcuno, non sono tempestivi nell’intervento. Le multe, inoltre, le poche volte che vengono fatte, sono troppo poco care, bisognerebbe inasprirle. Se alla persona che parcheggia dove non deve gli vengono fatti cinquecento e non cinquanta euro di multa, sono sicuro che la macchina lì la seconda volta non la parcheggia più. Solo che qui sembra non esserci questa’urgenza, c’è menefreghismo, non c’è rispetto. Una volta ero a cena fuori con una mia amica. Mi sono fatto accompagnare dal mio assistente vicino al ristorante, proprio dove c’erano due parcheggi per disabili, uno libero e uno con la concessione. Quindi, gli dico: “guarda, dopo, quando mi vieni a prendere, mettiti di qui con la macchina”. Io e la mia amica finiamo di mangiare e andiamo ad aspettare dove c’erano i posti per disabili e quello senza concessione era occupato da una macchina che non aveva il permesso. Guarda caso passano i vigili, incredibile, quindi io prendo un vigile e gli dico: “senti mo’ a questo tu gli fai la multa”. Lui gliela fa e se ne va. Dopo cinque minuti arriva la proprietaria della macchina che mi guarda, a me, e mi dice: “speriamo che non mi abbiano fatto la multa”, ammiccando. A me, capito?! L’ho “massacrata”. Le ho detto: “ma come ti permetti? Te l’hanno fatta sì la multa, te l’ho fatta fare io…”.

È anche molto faticoso burocraticamente il riconoscimento dei propri diritti. Lo Stato pretende dimostrazioni continue rispetto alla veridicità della tua malattia, disabilità, non mettendoti però nelle condizioni adeguate affinchè tu la possa affrontare al meglio…
Lo Stato i tuoi diritti li calpesta. A me è addirittura arrivata la richiesta da parte dell’Inps per andare a visita perché desideravano verificare se le mie condizioni erano migliorate, nonostante avessi inviato la documentazione necessaria. Ci sono andato con Jimmy Ghione e le telecamere di Striscia La notizia. Le Asl non forniscono le cartelle cliniche all’Inps così loro ti chiamano a visita perché temono che i documenti mandati da te siano falsi. È assurdo, le visite dovrebbero essere fatte a domicilio. Inoltre, vai a farle e sono una grande farsa. La prima volta che ne ho fatta una per ottenere l’invalidità, come scrivo nel libro, non sono nemmeno sceso dalla macchina e i medici sono usciti e mi hanno guardato solo le mani. Ce ne sono moltissime di magagne, la stessa assistenza a domicilio è problematica da ottenere. Vengono a visitarti per un periodo e poi di continuo desiderano rivalutare la situazione. Ma cosa vuoi rivalutare? Ci sono situazioni che vanno rivalutate perché passibili di miglioramento, ma altre come la mia che sono quelle punto e basta. C’è un’ignoranza terrificante. È umiliante, non fanno nulla per alleggerirti la situazione, anzi, ci mettono del loro per appesantirla.

È una guerra quotidiana quando metti il piede fuori da casa, vero?
Sì, è molto snervante. Però che devi fare? Rimanere a casa chiuso da solo? Bisogna combattere. Devi fare i conti con il Paese che è in queste condizioni, migliorare non migliora. Quindi è al singolo cittadino che va poi il compito di farlo migliorare o di riuscire a farsi scivolare le cose addosso. E trovare le alternative. Io sono uno che non si fascia mai la testa prima di sapere di che morte deve morire.

Cosa bisognerebbe evitare di dire a chi vive una situazione come la tua?
A me da particolarmente fastidio essere definito ammalato. La mia non è una malattia ma una condizione. Molta gente invece non lo capisce, ti vede come una persona ammalata. Questa è una cosa che mi manda in bestia. Mi innervosisce anche il modo che certe persone usano per riferirsi a chi è nella mia situazione ghettizzandole. Una sera, a teatro, mi è stato detto: “quelli come te li mettiamo lì”. Tutti abbiamo un nome e un cognome. Molta gente, addirittura, quando vado in giro e mi fermo a chiedere un’informazione, si rivolge e risponde al mio assistente e non a me, quasi avesse una sorta di timore reverenziale. Il termine diversamente abile poi, mi fa venire l’orticaria quando lo sento. Sono scorciatoie inutili, va benissimo disabile. Anzi, bisognerebbe superare anche il termine disabile e chiamare tutti solo con il proprio nome. Ognuno ha i problemi che ha. Ci sono persone che non vivono la mia condizione ma hanno una marea di problemi. Gli appellativi non aiutano l’integrazione.

Per te cos’è la libertà oggi?
La stessa cosa che era prima. La libertà è riuscire a fare tutto quello che vuoi fare nel miglior modo possibile. Ovviamente io prima mi svegliavo la mattina e decidevo se partire, prendere la macchina, andare a dormire in spiaggia con il sacco a pelo; adesso mi devo organizzare, non posso partire da un giorno all’altro. Però basta che ti organizzi e puoi fare tutto quello che facevi prima, solo in un modo diverso. La libertà è anche fatta di piccole cose. Per quanto mi riguarda, il fatto di gestire un accendino, scrivere, riuscire ad avere una vita più o meno autonoma, rispetto all’indipendenza che mi consente la mia condizione, è già una grande libertà. Poi è chiaro che non posso pensare con i parametri di una persona normale, da quel punto di vista non sono libero. Però la mia libertà ce l’ho sempre. E credo stia molto nella testa. Puoi essere anche totalmente paralizzato sul letto ma essere completamente libero. È molto interiore, ce la costruiamo noi. Io mi sento molto libero.

Ripensi mai alla mattina dell’incidente?
No, è un pensiero inutile. Non puoi cambiare ciò che è successo. La mia strada era quella, sono io che l’ho presa. Ho deciso io di andare a sciare, non sono stato spinto da nessuno. Potevo rimanermene a casa e non l’ho fatto perché dovevo andare incontro a quello che mi è successo. Ritornare a quella mattina è solo controproducente. La vita è andata avanti, ho fatto un percorso bellissimo, ho conosciuto persone, visto cose, intrapreso percorsi che non avrei magari mai fatto se non avessi avuto l’incidente. Certo, è chiaro che, se ci fosse la pillola che mi rimettesse in piedi, la prenderei subito, però non vorrei perdere il bagaglio che ho acquisito in questi anni perché è molto importante per me. Io credo che in un certo senso il mio incidente mi abbia anche migliorato da un punto di vista caratteriale, di sensibilità, di rispetto di determinati aspetti della vita, quindi non posso buttarlo via.

 

Immagine di copertina tratta da tetrahi.blogspot.it

 

TAG: amurri, lorenzo amurri
CAT: Letteratura

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