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Letteratura

“Il nome del padre”, un noir (e anche molto di più)

di Filippo Cusumano
31 Agosto 2017

Tre sono gli ingredienti che portano al successo un romanzo noir: la trama, la descrizione dei personaggi, dell’ambiente e del periodo in cui la vicenda si svolge, la qualità della scrittura.
A volte la trama è avvincente, ma la descrizione dell’ambiente è sommaria oppure la scrittura è sciatta e banale, oppure inutilmente enfatica.
A volte accade il contrario : l’ambiente è ben descritto, la scrittura “tiene”, ma è la storia ad apparirci poco credibile, oppure poco avvincente.
Il libro di Flavio Villani, “Il nome del padre”, dimostra di possedere in grande misura tutte e tre le qualità prese in considerazione.
Partiamo dalla trama (ma evitando qualsiasi anticipazione o, come si dice adesso, spoiler).
Al centro del romanzo c’è un cold case, un caso irrisolto che risale addirittura all’estate del 1972: un cadavere fatto a pezzi e privo di testa viene trovato dentro una valigia lasciata in deposito alla Stazione Centrale di Milano.
E’Ferragosto, chi dovrebbe occuparsi del caso, il commissario Naldini,  è in vacanza al mare con la famiglia e non intende rientrare dalle ferie. Le indagini vengono affidate al viceispettore di polizia Cavallo, un giovane poliziotto napoletano della Squadra Mobile di Milano.
Cavallo si sente ancora estraneo non solo alla città (e questo si capisce, visto che ha sempre vissuto a Napoli), ma anche all’ambiente di lavoro.
Attraversa la vicenda, combattendo continuamente contro una specie di complesso di inferiorità nei confronti dei colleghi più duri e scafati di lui, anche quando avverte la superficialità e la inconsistenza del loro modo di procedere nella ricerca della verità:
“Durante il sopralluogo al deposito bagagli avevo preso qualche appunto: utilizzavo un notes nuovo di zecca, dalla copertina rossa, un notes a cui tenevo moltissimo, anche se da quando l’avevo sfoderato la prima volta ero diventato il bersaglio di sfottò da parte dei colleghi più anziani.
Mi chiamavano Sherlock Holmes.
Vedi, Cavallo, la vita reale è un’altra cosa, càcciatelo bene in testa, dicevano i colleghi.
Ma nonostante tutto a quel taccuino non avrei mai rinunciato.
Me lo aveva regalato Rosa il giorno della partenza.[… ] Rosa tratteneva a stento le lacrime, e attese l’ultimo istante per consegnarmi il pacchetto. Lo aprii solo dopo che avevamo superato Roma, sdraiato nella mia cuccetta. Se lo avessi fatto prima probabilmente sarei scoppiato a piangere anch’io, e non volevo che accadesse. Non partivo certo per la guerra. Ne ero consapevole”

Non è un “duro”, il viceispettore Cavallo.
Avverte pienamente la sua condizione di “malinconico espatriato”.
Dorme poco e male, anche perchè l’appartamento che può permettersi è al primo piano di una strada molto trafficata.

“Comprendeva solamente una stanza da letto, un bagno striminzito con mezza vasca e un cucinino dove si poteva stare solo in piedi, ma non importava dato che ci preparavo solo il caffè alla mattina”
L’appartamento fa schifo, è talmente angusto che occorre tenere sempre le finestre aperte e far entrare quindi, insieme all’aria, anche i gas di scarico dei tram e delle auto, ma, come ammette onestamente Cavallo, c’è di peggio: per esempio, condividere, come ha fatto nei primi tre mesi di permanenza in città, una camera ammobiliata con altre due persone.
Cavallo è uno che non si arrende.
Vede le difficoltà, ma pensa sempre che “c’è di peggio” e tira dritto.
Gli eventi ai quali deve assistere per la professione che svolge lo turbano ancora, la diffidenza che gli riservano i colleghi più esperti lo stressa, Milano è dura da digerire per lui che ha vissuto in un altro contesto e in un altro clima, ma tutti questi “fattori di disturbo” non sono abbastanza forti da indurlo alla resa: per lui la ricerca della verità è, prima ancora che una questione professionale, un’ossessione.
Un’ossessione che si porterà appresso per tutta la vita.
Un libro da leggere tutto d’un fiato, godendosi i colpi di scena della trama, la qualità della scrittura, vivendo (o rivivendo, per chi ci ha vissuto in quegli anni) l’atmosfera della Milano degli anni ’70 che fa da sfondo alla storia.
Qualcuno ha scritto che siamo dalle parti di Scerbanenco, lo penso anch’io: “Il nome del padre” non è solo un romanzo noir con tutti i crismi del genere, ma anche molto di più.

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