Aperitivo con Cerone, scrittore di successo, ghostwriter, rugbista, imprenditore

23 Giugno 2022

Ci vediamo nel cuore dell’Isola, a Milano, proprio nel quartiere in cui ha piazzato anche il cuore del suo romanzo di esordio: “Le Notti Senza Sonno”, edito da Guanda, subito diventato un caso editoriale di successo. Da quando è uscito, poco più di un mese fa, questo giallo milanese il cui intreccio ha preso vita proprio mentre incubava la pandemia, è stabilmente nelle classifiche dei libri più venduti. Quest’intervista l’abbiamo pensata insieme, come occasione per conoscere meglio uno scrittore non emergente, ma anzi, già emerso col suo romanzo d’esordio pubblicato a 58 anni. Prima della vita di scrittore, evidentemente, c’è n’è una fatta di incontri umani e professionali. Gian Andrea Cerone oggi è anche il cofondatore di Storielibere.fm, start up che produce podcast e che è stata tra le apripista di questa nuova tendenza di mercato nel nostro paese. Ma nella sua vita, prima del travolgente successo editoriale di queste settimane, ci sono molte altre cose: il rugby, il lavoro di spin doctor, le radici liguri e quelle ripiantate, daccapo, a Milano. Di questo e di molto altro abbiamo parlato, partendo da – o con la scusa del – suo libro.

Iniziamo dalla fine: che effetto fa il successo, quando arriva a valle di un esordio maturo come il tuo?

Un certo effetto lo fa, non lo nego. Fa soprattutto impressione che, a partire dalla prima settimana in top ten tra libri più venduti, arrivino telefonate di agenzie, di scout, e di tanti professionisti dell’editoria e dello spettacolo. Un’esplosione, chiamiamola così, avvenuta in modo particolare: io sono un esordiente adulto, mi sono mosso senza avere un agente, ho inviato il mio testo a diverse case editrici e alla fine mi ha felicemente scelto Guanda, che da subito ha creduto moltissimo nel mio romanzo. Dopo averlo letto mi chiamò Luigi Brioschi, presidente e direttore editoriale di Guanda, una specie di istituzione. La prima cosa che mi disse fu che il romanzo gli aveva addirittura ricordato Fruttero e Lucentini… soprattutto per come era trattata e raccontata la città. Sono parole che ovviamente mi hanno lusingato, ma anche responsabilizzato, mettendomi una certa pressione. Anche perché Guanda non solo lo ha accettato per la pubblicazione, ma ci ha decisamente puntato programmando l’uscita per l’estate. Un giallo di un esordiente che esce in quella che tecnicamente si chiama cedola estiva, rappresenta una sfida in un momento caldo sotto tutti i punti di vista, quello su cui i grandi editori lanciano i cosiddetti libri di cassetta. Mi rendo conto che questo exploit possa aver fatto un certo effetto ad alcune scrittrici e scrittori già affermati che, almeno in un primo momento, mi guardavano come uno strano pesce emerso dal nulla. Un outsider di successo rappresenta una felice anomalia nel panorama editoriale italiano.

Ma avevi già avuto, prima della storia del commissario Mandelli, un romanzo nel cassetto?

Sì, volevo scrivere la storia della mia famiglia. Sarebbe una saga bellissima, popolata da personaggi molto significativi, soprattutto quelli vissuti nei primi decenni del 900. Ma poi, vivendo a Milano, mi è cresciuta dentro questa voglia di giallo. Sono un lettore onnivoro e del giallo mi piace molto la possibilità di indagare, e in qualche modo rappresentare, la società attuale. Ma più di tutto volevo scrivere un romanzo ampio, di scrittura, in cui far confluire le tante esperienze accumulate negli anni e la mia visione della realtà. Anche per questo è un romanzo molto corposo, di quasi seicento pagine, perché c’è tanta vita dentro. E tanta, tantissima Milano.

Milano è una città che ti permette, spostandoti di poco in senso storico o geografico, di entrare in mondi lontani e diversi.

È proprio così. Lo scenario mutevole e pulsante della città mi ha consentito di dar vita a molti personaggi – ce ne sono quasi 50 nominati – e di costruire una storia su più livelli, in cui  emergessero nella loro complessità e complementarità non solo i due protagonisti positivi, ma anche le varie declinazioni del Male in ogni suo aspetto. Ovviamente era un progetto ambizioso, che però mi è venuto naturale. Tutto è stato pensato in una dinamica di serie, che potesse andare oltre alla parola “fine” del primo libro. Infatti, confesso, ne ho già scritto un secondo. E poi avevo un obiettivo personale: divertirmi. Mettendo insieme tutto quel che mi piaceva, da Maigret ai debiti con Camilleri, dal padre putativo Scerbanenco fino a Vargas.

Sentendoti parlare sembri uno scrittore al nono romanzo che voleva regolare i conti con un pantheon di scrittori, e invece sei un esordiente.

In effetti questo elemento di confronto con i grandi del genere c’è, nonostante si tratti di un esordio. Ma è molto rispettoso. Volevo soprattutto regolare i conti con me stesso e con tutti gli anni in cui non ho affrontato la narrativa. Forse è per questo che ho scritto un romanzo anomalo, per essere un noir. Un giallo sospeso nei primi giorni confusi ma non ancora atroci della pandemia, una storia dal ritmo forsennato ambientata, per paradosso, in una Milano stordita e rallentata. Insomma, dentro ci sono tante cose. C’è anche la dimensione del feuilleton poliziesco: amo tantissimo questa misura narrativa, popolare e alta insieme. Il recupero di una metrica di racconto ampia, fatta di personaggi e di azioni, di ironia e di iperboli… Ma ti rassicuro subito, nonostante tutte queste premesse ambiziose non dimentico mai di essere un esordiente!

E un esordiente che ha una peculiarità: di mestiere, mentre debutti come scrittore, fai l’editore, e l’editore digitale di Storielibere.fm, cioè l’editore di un prodotto ancora in culla, come sono i podcast. Mentre fai una cosa così innovativa, ne fai un altra che più novecentesca non si può, scrivendo un libro giallo di quasi seicento pagine, che ha il sapore del feuilleton…

Esattamente! In fondo volevo omaggiare le mie radici culturali di uomo del Novecento mentre sono impegnato a fare cose per il mondo di oggi e di domani. Peraltro, al mestiere di produttore e creatore di contenuti, sono arrivato con un’esperienza di vita e lavoro piuttosto ricca e variegata.

E raccontiamola, no?

Sono savonese, ho studiato nel liceo classico in cui studiano tutti i savonesi che fanno il classico. Alcuni nomi sono noti, ma cito Pietro Galeotti, un vero fratello mai perduto negli anni. Di quelli che sei certo che verranno al tuo funerale, come direbbe lui. Poi ho iniziato giurisprudenza a Genova e dopo un anno mi sono trasferito dall’altra parte della strada per studiare storia medievale. Sono un medievalista di formazione, per quanto anomalo, perché non ho certo il physique du rôle del topo d’archivio… Anche perché per molto tempo mi sono seriamente dedicato al rugby. Ho giocato per vent’anni da semiprofessionista, prima nel mio amato Savona e poi anche in serie B, conquistando una promozione in serie A2. È un pezzo di vita che mi ha formato e mi aiutato ad affrontare tutti i tipi di situazioni. Come questo esordio che, nonostante le aspettative, ho vissuto con serenità, con il giusto distacco di chi ha accumulato abbastanza esperienza per sapere che nella vita le cose possono andare bene o male, ma che in ogni caso si va avanti lo stesso. L’importante è affrontare i momenti importanti con passione. Quello l’ho sempre fatto, anche stavolta.

Nei vent’anni di rugby, che lavoro facevi?

Prima studiavo, grazie al lavoro di commerciante di mio padre. Poi, nei primi anni ‘90, insieme a mio cognato Fabrizio Zago ho fondato una casa editrice a Savona. Si chiamava Dogma, un nome impegnativo… Facevamo pubblicazioni tecniche per l’optometria, l’architettura, la medicina. Eravamo dei folli entusiasti, tanto che verso la fine degli anni Novanta ci venne in mente di cimentarci nella tv satellitare. Facemmo un accordo con Fossa, allora presidente di Confindustria, per un canale tematico che si chiamava Salute e Benessere. Un bel progetto poi affossato dall’interno, perché i nuovi assetti di Confindustria erano particolarmente sensibili alle richieste degli altri grandi editori italiani… In quel momento allora mi chiama Tele+, ma non avevo più voglia di fare televisione, e così accetto la proposta di Klaus Davi per andare a dirigere la sua agenzia di pubbliche relazioni. È stata una bella esperienza, che mi ha portato per molto tempo a occuparmi di comunicazione politica e ghost writing, che è stato un grande esercizio di scoperta dei “personaggi”. Insomma, un primo esercizio narrativo…

Hai lavorato per Fassino, per Scajola, per molti politici di primo piano. Cosa ti ricordi di quegli anni?

È stato molto divertente. Quasi una laurea in antropologia politica. Poi un giorno mi chiama Lucia Scajola, un’amica e figlia dell’allora ministro dello sviluppo economico, che aveva bisogno di una persona che si occupasse delle relazioni esterne. Ho lavorato un anno e mezzo al ministero a Roma. Una bellissima esperienza professionale e umana, poi sono mancate le condizioni per poter continuare a fare il mio lavoro. Allora mi proposero di andare a lavorare per Expo2015, che stava partendo. Lì sono rimasto fino al cambio societario e di gran parte dello staff che discendeva dalla precedente gestione. E così son tornato da Davi.
Nel mezzo anche qualche intermezzo calcistico, come la comunicazione per il Varese Calcio appena promosso in B. Fino a quando mio cognato Fabrizio ha fondato una società multinazionale per le energie rinnovabili e, con la lungimiranza che lo contraddistingue, mi ha chiesto di mettere in piedi una branca che producesse contenuti video per il settore green a livello internazionale.

Insomma, una factory per lo storytelling quando la tendenza era ancora all’inizio.

Esattamente. E questo ci ha portato a esplorare molte frontiere dell’innovazione, tra comunicazione e giornalismo, in un momento caldissimo. Proprio in quegli anni infatti, la mia socia Rosanna de Michele era in uscita da Radio Rai Due, che con una scelta poco illuminata si stava liberando di molte risorse e autori, dismettendo le attività di storytelling. È in quel momento che, seguendo una sua felice intuizione, insieme abbiamo iniziato a ragionare sul futuro dei podcast, studiando per alcuni mesi le tendenze globali. Io mi sono dato da fare per trovare le risorse, è così è nata Storielibere.fm, con l’obiettivo di dare voce a chi aveva una vera militanza ma non aveva la possibilità di esprimerla. Adesso ovviamente quella dei podcast sta diventando un’industria, e questo cambierà inevitabilmente la traiettoria di tutti gli editori come noi. Ed è così che, mentre stavo facendo una cosa così innovativa, ne ho voluta fare una molto antica: un romanzo!

E torniamo alle tue Notti Senza Sonno, per concludere. Da quando è uscito, cosa ti si è mosso dentro?

Dentro di me è cresciuta la consapevolezza della replicabilità: ora so che posso scrivere un romanzo e che sono in grado rifarlo, provando ogni volta a migliorarmi. La seconda cosa che sento è una sorta di profonda rilassatezza. Aver scritto e pubblicato mi dà una strana sensazione di libertà, visto che dipendo soltanto dalle mie capacità. Attorno a me invece è cambiato molto, soprattutto da quando sono entrato in classifica e sono stato di colpo “attenzionato” dai lettori, dai librai, dal mondo dell’editoria e dai colleghi scrittori. Ovviamente so bene che è un mestiere difficile e che richiede una metodica costruzione fatta di tempo e dedizione. Ma tutto ciò è uno stimolo a fare meglio e anche a confrontarsi con le letture con un occhio diverso. In questo periodo ad esempio sto leggendo La Fabbrica della Nebbia, di Gino Cervi, che è una piccola delizia che consiglio a tutti. Inoltre sto terminando la titanica biografia di Hitler di Kershaw e poi voglio passare alla Stalingrado di Grossman… l’obbiettivo è leggere, rileggere quel che ho amato di più ma, più di tutto, continuare a scrivere.

E i giornali li leggi? Ti piace il giornalismo italiano?

Li leggo, naturalmente. Ma devo dire che al racconto giornalistico oggi sembra mancare la narrazione delle vite comuni, della fatica di arrivare a fine mese e di vivere in città insostenibili… insomma, manca la vita della gente. Eppure non è sempre stato così, anzi. Il giornalismo italiano, anche quello delle grandi firme, non era questo. Era il Buzzati delle cronache di nera, ad esempio, che saliva sulle Alfette della Polizia e raccontava il crimine e l’ingenuità della gente comune. A me fa una certa impressione che oggi il giornalismo progressista si occupi quasi esclusivamente del palazzo, e quasi mai delle vite delle persone. Una sterile autoreferenzialità che ha portato parte della cultura di sinistra a perdere contatto con la società. Non basta il racconto degli eventi eccezionali e tragici della pandemia e della guerra per ritrovare questo legame con la realtà. Quello della normalità è un tema affascinante per chi lo sa descrivere. Bisognerebbe ritornare a camminare per le strade e raccontare quello che vediamo attorno a noi, come faceva il giornalismo popolare – spesso disprezzato – degli anni Sessanta.  Per fortuna in parte compensa la letteratura: è a questo che servono i grandi romanzi e i gialli, a ricordare che tutti abbiamo paura di morire.

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CAT: Letteratura

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