Siti: «È l’era dell’individualismo insicuro, ribellarsi è sempre più difficile»

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2 Maggio 2018

“Tra un po’ di tempo potrebbe arrivare un momento in cui non ci sarà quasi più rapporto tra chi sta in alto, come i ceo delle grandi multinazionali, i best performer della società dello spettacolo, chi ha ereditato patrimoni cospicui, e chi sta in basso, ovvero migranti, precari, persone sfruttate come carne da lavoro o serbatoio per indignazioni mediatiche utili ad arricchire pochi, e confinate dentro mondi dominati dalla paura, dalla povertà e dalla violenza”, dice lo scrittore Walter Siti, intervistato da Gli Stati Generali, mentre commenta le pagine che chiudono Pagare o non pagare, il suo ultimo saggio, uscito di recente per Nottetempo, in cui si citano opere come La macchina del tempo di H. G. Wells e Mondo nuovo di Aldous Huxley e dove si prefigura un’umanità ventura divisa più che in classi in razze distinte e non comunicanti: “Se le ricerche sul Dna andranno avanti, si arriverà a poter decidere le caratteristiche genetiche del nascituro, incluso il quoziente intellettivo. Saranno operazioni tanto costose che pochissimi potranno permettersele, salve le implicazioni etiche e sebbene oggi la legge non lo permetta”.

C’è davvero da essere così pessimisti?

Si tratta di una specie di boutade un po’ estrema, però al di là delle crisi economiche e della ciclicità dei loro alti e bassi, c’è un dato che non cambia mai da ormai trent’anni in tutto l’Occidente ed è l’aumento della differenza di condizione che divide i ricchi dai poveri. E forse la classe media è così ansiosa perchè non sa che fine farà, se gli toccherà di stare tra i vincenti o tra i perdenti. Viaggiando all’estero, ad esempio, in Guatemala, mi è capitato di vedere che i ricchi si trinceravano dentro vere e proprie ville fortificate, chiamate mansiones, circondate da muri molto alti e con milizie private armate di mitra. Si avvertiva la sensazione che i ricchi si sarebbero lentamente ritirati in un universo a parte. E, ancora, mi colpisce che in questo mondo dalle pareti di vetro e dove nessuno sembra al sicuro dalle intercettazioni, una delle cose che i potenti veri stanno facendo è criptare le loro comunicazioni, poiché, ovviamente, le cose importanti non possono accadere in pubblico.

È vero che nel mondo ci sono profonde differenze di condizione tra le persone, e che ci sono state anche in passato, se soltanto si pensa alla schiavitù, ma è anche vero che mai come in questa epoca un numero grandissimo di persone può accedere a una quantità straordinaria e sterminata di informazioni e di contenuti.

Non voglio fare l’apocalittico e spero che i fattori positivi possano prevalere. E’ vero che internet e i social media permettono una comunicazione aperta e a larghissimo raggio, ma è anche vero che le società chiuse del passato proprio in virtù della loro chiusura a un certo punto rendevano possibili le rivoluzioni, quando i poveri diventavano troppi e le ingiustizie si facevano palesi, come accade in Russia nel 1917 con la presa del Palazzo d’Inverno o in Francia, quando viene deposta la monarchia. Ora mi sembra che le chiavi di questo meccanismo che dà una sensazione enorme di libertà, quasi di onnipotenza, siano in mano a pochi, a grandissime multinazionali informatiche che ci regalano la libertà di cercare informazioni e di comunicare e che controllano le infrastrutture tecnologiche al cui interno ci muoviamo. Così, secondo me, si favorisce una società frammentata, dove tra le persone corrono piccole differenze di condizione e in cui ognuno può avere l’impressione di stare un po’ meglio di altri, e dove tutti possiamo ritenere di avere qualcosa o molto da perdere. E questo fa sì che diventi molto più difficile ribellarsi.

Nel suo saggio evidenzia come l’avvento del capitalismo, tra la fine del ‘700 e l’800, pur con le sue storture, concorra alla creazione di una società nuova, della borghesia, della democrazia rappresentativa così come l’abbiamo intesa fino ad ora. Non è possibile che questa nuova era mediatica stia dando vita a un’evoluzione ulteriore, a una sorta di nuova democrazia dai tratti iper-individualisti e, a volte, caotici?

La prima rivoluzione industriale ha portato un cambiamento enorme nella testa delle persone, sono nati il romanticismo e altre cose che prima non esistevano, come ad esempio il mito dell’infanzia. Prima di allora non c’erano libri per bambini, è come se una società diventando adulta scoprisse il fascino dei bambini. La rivoluzione digitale senza dubbio porterà trasformazioni cerebrali profonde, mutazioni che non hanno a che fare soltanto con la psicologia, ma anche con la neurofisiologia. Suppongo che saranno cambiamenti molto interessanti, ma temo che che alcune delle cose a cui sono più legati quelli della mia generazione, quelli che avevano vent’anni nel ’68, per intenderci, saranno superate. Per esempio, i nostri concetti di democrazia o di rivoluzione, probabilmente non avranno più spazio e nasceranno altre idee di società, forse forme di oligarchia ben intenzionata o di dispotismo illuminato, che oggi non riusciamo a immaginare. Tempo fa sono stato negli Emirati Arabi e ho visto come si possa realizzare una ricchezza diffusa notevole, senza la minima garanzia per i diritti umani.

L’individuo, o gli individui, i singoli sembrano polarizzare questa fase storica, dove sono in difficoltà, o almeno in parte superate e più deboli le strutture collettive, le istituzioni, la famiglia, e l’idea stessa di coppia.

Questa enfasi evidentissima sull’individuo, forse per via del mio vecchio sistema di pensiero, mi pare si concretizzi in una sorta di individualità fai da te, che ci sia come un kit attraverso cui ciascuno può modellare la propria individualità o la propria immagine in base a schemi che vengono da fuori. La consuetudine diffusa di aggiornare il profilo sui social network mi sembra che dipenda da trend di massa. Inoltre, ho l’impressione che oggi i modelli che ci influenzano e ci eterodirigono non siano lontani e superiori, ma prossimi a noi, come il vicino di casa o la persona che vediamo passare per strada. E poi trovo incomprensibile questa gioia che la gente prova a fotografare se stessa, a farsi selfie anche venti o trenta volte al giorno. Perché chi passa qualche giorno Parigi, invece di godersi il paesaggio, sente il bisogno di fotografarsi con la Senna sullo sfondo? Solo chi è insicuro di se stesso ha bisogno di avere tante testimonianze di sé. Non sono certo che quello che viviamo sia un buon individualismo.

Posti i problemi dell’epoca che viviamo, il grado di precarietà del lavoro e le logiche di sfruttamento che ancora si accompagnano alla globalizzazione e alla riduzione dei prezzi di alcuni beni, non può essere che almeno in Occidente siano mutate le priorità sociali? E che se per le generazioni venute dopo la guerra era centrale il lavoro, e quindi arricchirsi e migliorare la propria condizione economica, oggi siano sempre più importanti la qualità della vita e il tempo libero?

Senza dubbio con il progresso della tecnologia è quasi obbligatoria la riduzione dell’orario di lavoro, sarà inevitabile pensare a giornate lavorative di quattro o cinque ore e il tempo libero sarà un dato fondamentale della nostra società. È proprio per questo che il tempo libero sta diventando merce e che si stanno diffondendo sempre di più lavori, che alcuni decenni fa sarebbero stati inimmaginabili e sarebbero parsi inutili, finalizzati a far risparmiare tempo o a organizzare le ore di noia più che a produrre oggetti. L’altro giorno parlavo con una persona che ha sviluppato una app per smartphone per trovare i bambini che compiono gli anni nello stesso giorno e per poter organizzare così feste di compleanno collettive e spendere meno. Se io a vent’anni avessi detto a mio padre che avevo trovato un lavoro simile mi avrebbe preso per matto. La domanda che mi faccio, però, è chi sta insegnando ai giovani a fare un buon uso del tempo libero? La società in cui ho vissuto io, quella degli anni ’60 e ’70, del consumismo classico e dell’ascensore sociale, era decisamente basata sul desiderio di comprare cose e di una vita migliore. Adesso che molto si gioca sul tempo libero, ho come l’impressione che ci sia uno sfarinamento del desiderio, ovvero che i desideri diventino molteplici, strani e imprevedibili e che si usi il tempo per promuovere la propria immagine. Guy Debord, l’autore di La società dello spettacolo, diceva che alla fine diventeremo spettacolo a noi stessi, forse sta accadendo.

Pur con i limiti, le bassezze e le corruzioni del presente la società del tempo libero potrebbe essere la società della libertà o delle libertà, per usare una vecchia parola.

Ho però l’impressione che oggi ci sia molta libertà in vendita e che si possa essere liberi all’interno di un recinto che non si può scavalcare.

Cambiamo tema, parliamo di letteratura. Che cosa è per lei la letteratura?

Credo che sia un gioco che si fa con le parole per scoprire cose nascoste anche a noi stessi e che questo valga sia per l’individuo che per le società. In fondo è un rito, basato su una certa dose di aleatorietà, giocando con le parole si va alla ricerca di definizioni di noi stessi e del mondo che fino a quel momento non esistevano. Una specie di invenzione di mondi alternativi.

E la letteratura, per essere occasione di scoperta e di conoscenza, deve essere rischiosa?

Lo è per forza, se si va in profondità a cercare quello che la retorica mainstream non sa o non vuole sapere. In questi giorni mi sono trovato a dover recensire un romanzo come La colpa, il cui autore si firma con lo pseudonimo di Ghirghis Ramal ed edito da DeA Planeta Libri, in cui si racconta l’attentato fatto da un gruppo di ragazzi egiziani durante la notte Natale in un supermercato di corso Buenos Aires a Milano. E si racconta la vicenda dall’interno, dando la parola agli attentatori. Se si fa letteratura si ha anche l’obbligo di dare la parola al nemico, a chi sta cercando di distruggerti. Questo può essere pericoloso in termini sociali. E, sul piano individuale, Victor Hugo, paragonando la letteratura al lavoro di miniera, diceva che lo scrittore è come un minatore che scava nei cunicoli della psiche. E diceva che lì sotto possono capitare degli incidenti e che, se esplode qualcosa, è più difficile risalire.

Nel corso di un incontro svoltosi lo scorso 18 aprile, presso la scuola di scrittura Belleville, lei ha affermato che le sembra che sia in atto un processo di normalizzazione della letteratura attraverso lo spettacolo e la performance. Che cosa voleva dire?

In questa fase di transizione mediatica si sta dando molta importanza alla spettacolarizzazione della parola e alla comunicazione. Questo richiede chiarezza e prevede che ci sia poca ambiguità, cosa preziosa per la profondità di cui la letteratura ha bisogno. Ci sono scrittori, come Tiziano Scarpa, che sono quasi degli attori e che sono molto bravi a leggere in pubblico i loro testi. Si privilegia questo aspetto orizzontale della comunicazione e l’impressione immediata che può suscitare una persona dotata di particolare carisma. Invece, mi sembra che sia diventata una cosa di nicchia e per pochi l’esperienza di leggere, rileggere e rimuginare, un testo scritto, come, per esempio, La metamorfosi di Kafka, scoprendo ogni volta, e a distanza di anni, nuovi significati.

Secondo lei continuerà a esistere la letteratura così come, pur attraverso trasformazioni profonde, l’abbiamo intesa negli ultimi millenni, da Omero a Shakespeare, fino ai giorni nostri? Oppure internet, la rivoluzione digitale ed eventualmente altri fattori cambieranno le regole del gioco?

Presumo che alcune cose fondamentali e vecchie quanto la storia della letteratura resteranno, come giocare con le parole e le immagini, oppure unire le parole ai suoni e usare tutto questo per creare, come si diceva prima, mondi alternativi che siano sufficientemente profondi per dire cose nuove su di noi. Penso che il cambiamento del supporto, del medium non sia decisivo. La poetessa Saffo, per esempio, tra il VII e il VI secolo a. C., cantava le sue poesie accompagnandosi con la lira. Dopo un periodo iniziale di uso infantile e superficiale di un medium, come è accaduto per la stampa e per il cinema, arriva qualcuno che sa usare il nuovo strumento in profondità. Penso che qualcuno si inventerà un’opera ipertestuale che avrà la stessa importanza che hanno l’Amleto di Shakespeare o I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Del resto, già Wagner nell’Ottocento aveva l’ambizione di fare l’opera d’arte totale, ovvero l’arte che coinvolge tutti i sensi.

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CAT: Letteratura

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