Per chi suona la campana. Ultima chiamata per i “quarantenni” italiani

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25 Novembre 2018

“Avevano vent’anni vent’anni fa. Oggi sono una categoria di giovani vecchi, senza speranze, senza soldi, senza figli, senza rancore. Sono i rassegnati”.

Difficile, per chi ha più o meno la stessa età, rimanere indifferenti ad un ritratto così impietoso. Quello di Tommaso Labate più che un libro è un pugno nello stomaco, tirato in maniera precisa, e pulita. Con grande consapevolezza.

La prima e la quarta di copertina sono lo specchietto per le allodole perfetto per chi è in cerca di una bella lagna generazionale (grande classico di tutti i tempi). Bastano pochi paragrafi però, per capire che nelle 200 pagine de “I rassegnati” non ci sarà molto spazio per auto commiserazione ed auto assoluzione. Anzi. La lettura produce un senso di fastidio ed una montante incazzatura che perdurano nel tempo.

Personalmente, ci ho messo qualche settimana per mettere a fuoco quel che stavo provando. All’inizio pensavo che la questione fosse relativa al non sentirsi correttamente rappresentati in un racconto che per forza di cose si nutre anche di una manciata di generalizzazioni, luoghi comuni ed esagerazioni. Perché no, “non siamo tutti così”, “non è andata per tutti così”. Ognuno ha la sua storia, le sue lotte, le sue forme di impegno, le sue attenuanti. Tutte cose che, in fondo, ci aiutano a stare a galla e ad illuderci di poterci sentire, ancora una volta,”una storia a parte” o, se proprio occorre, più vittime di qualche cosa di più grande di noi che corresponsabili della situazione in cui viviamo.

Poi ho capito che, in fondo, l’unica cosa che rileva è ciò che non abbiamo (ancora) fatto. O che non abbiamo fatto abbastanza. Nel ripercorrere gli ultimi 20 anni di storia italiana, gli anni in cui siamo diventati (anche se non riusciamo a dirlo con convinzione) adulti, Tommaso Labate parla soprattutto di un mercato del lavoro che è cambiato, di garanzie e tutele che prima erano dati per scontati ed oggi sembrano un premio per chi ce la fa, di sogni che si sono infranti, scontrandosi con la realtà. Siamo cresciuti nell’illusione che il futuro ci avrebbe riservato condizioni sempre migliori e ci siamo scoperti poco attrezzati per far fronte ad un mondo che – ora lo sappiamo – di scontato non ha proprio più nulla. “Siamo la prima generazione che non a riuscita a realizzare in massa i propri progetti”. “Ci siamo ritrovati imprigionati nella gabbia della rassegnazione che ci porta a produrre grandi riflessioni su ieri, grandi analisi sull’oggi ma senza nessuna possibile lettura del domani, men che meno quella che passa attraverso i sogni”.

Il punto chiave (e doloroso) è però un altro, e Labate lo chiarisce molto bene: la storia, l’economia, le generazioni precedenti ci avranno pure tirato dei brutti tiri, ma noi, collettivamente, abbiamo fatto proprio poco per cambiare il nostro destino. Ci saremmo scavati la fossa da soli, questa è l’accusa, per incapacità di generare conflitti o, peggio ancora, scegliendo di ingaggiarci in finte e poco utili contese, che ci sono state date vinte proprio perché, nei fatti, non toccavano niente che potesse davvero modificare lo status quo. Colpiscono, con il senno di poi, i resoconti relativi alle proteste contro le riforme universitarie, conclusesi con accordi al ribasso con il corpo docente.  Accettando soluzioni che salvaguardavano un generalizzato quieto vivere, lasciando da parte la velleità di rendere più efficace il sistema educativo nel suo complesso, operazione che avrebbe richiesto a tutte le parti in causa di fare degli sforzi in più.

Colpisce, ancor di più, la cronistoria di come siamo progressivamente diventati più individualisti  ed egoisti, anche facendo leva sulla capacità di smartphone e social media di allontanarci progressivamente gli uni dagli altri, sterilizzando ogni forma di reale solidarietà e chiudendoci in molteplici forme di isolamento, che ci hanno impoverito ed indebolito, consentendoci di ritardare sempre di più l’impatto con la realtà.  Ci siamo cullati nell’illusione di poter fare tutto senza il bisogno di nessun altro  e nella speranza che, anche se il contesto andava peggiorando noi, in fondo, ce la saremmo cavata, grazie alle nostre personali risorse, al limite anche facendo – consapevolmente o inconsapevolmente – qualche sgambetto ai nostri “concorrenti”  (è la meritrocrazia, bellezza). Abbiamo considerato normale essere trattati in maniera indegna, nell’attesa di una prossima occasione, la “nostra”. Abbiamo iniziato a trattare gli altri allo stesso modo.

“Deprivati dei diritti concessi alle generazioni precedenti, li neghiamo a chi ne ha di meno” e ci guardiamo bene dal metterci al fianco di chi li sta perdendo. Paralizzati dalla paura di perdere quel (tanto o poco) che pensiamo di avere, è questa incapacità di essere solidali l’unica cosa che sembra accomunarci.

“Non chiederti mai per chi suona la campana, essa suona per te”. Labate, come Hemingway, sembra riprendere John Donne nel tentativo risvegliare la coscienza di una generazione che in gran parte l’ha perduta. Potrete non condividere in toto le analisi contenute ne “ I rassegnati”, ma difficilmente potrete evitare di sentirvi chiamati in causa. Per i quarantenni di oggi questa potrebbe essere l’ultima chiamata. Far finta di non sentirla equivarrebbe a passare definitivamente dalla parte dei colpevoli, agli occhi di chi ha meno anni e meno risorse.

“Non sappiamo da dove veniamo, non abbiamo la più pallida idea di dove stiamo andando. Non sappiamo da dove veniamo, in fondo, anche perché nessuna delle battaglia che abbiamo combattuto, quando le abbiamo combattute, ha cambiato il corso degli eventi”.

Risvegliarsi da questo torpore implica acquisire nuove consapevolezze, ridefinire identità, costruire legami di solidarietà e prepararsi a dare vita ad una nuova stagione di conflitti, con l’obiettivo di consentire a molte più persone di acquisire nuovi diritti.

Ne saremo capaci? Potremmo iniziare connettendoci con le per fortuna tante eccezioni alle regole descritte ne “I rassegnati”, smettendo di considerare l’urgenza di migliorare le proprie condizioni sociali ed economiche un fatto privato  e recuperando le ragioni ed i protagonisti dell’unico movimento curiosamente non menzionato da Labate, quello di Genova 2001. Un movimento  basato proprio su quegli “ismi” (altruisimo, pacifismo, ambientalismo) che oggi sembrano scomparsi. Un processo interrotto che “ha perso la voce”, in seguito agli eventi di quei 4 drammatici giorni. E non è un caso, forse, se a perdere la voce è stata poi una intera generazione, danneggiando tutti (chi c’era, chi non c’era, chi avrebbe voluto esserci, chi era contrario, chi ha chiuso gli occhi).

 

*Per chi volesse incontrare l’autore, Tommaso Labate sarà a Milano mercoledì 28 Novembre, alle 18:30,  per presentare “I rassegnati” alla Libreria Rizzoli in Galleria Vittorio Emanuele II.

 

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John Donne, “Nessun uomo è un’isola”

 

Nessun uomo è un’isola
completo in se stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.

Se anche solo una nuvola
venisse lavata via dal mare,
l’Europa ne sarebbe diminuita,
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare
una dimora di amici tuoi,
o la tua stessa casa.

La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell’umanità.

E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
essa suona per te.

TAG:
CAT: Letteratura, Scienze sociali

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