Dio oltre Dio in Silesius

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10 Maggio 2023

 

Angelus Silesius (Angelo della Slesia) è il nome che il medico e filosofo tedesco Johann Scheffler (Breslavia 1624-1677) assunse quando, trentenne, si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo, vivendo da allora asceticamente, immerso in studi di teologia e dedito a opere di carità. Aveva studiato a Strasburgo, Leida e Padova, padroneggiava le lingue antiche e moderne, conosceva a fondo i testi spirituali del misticismo medievale tedesco – in particolare Meister Eckhart e Jakob Böhme –, e di quello spagnolo, il pensiero platonico e neoplatonico, la patristica fino a Sant’Agostino e gli scritti di San Bernardo. Dopo aver preso gli ordini sacerdotali nel 1661, si impegnò con rigore nella lotta della Controriforma, pubblicando opuscoli violentemente apologetici in difesa della Chiesa e del Papato. Ma la maggiore celebrità gli deriva dalla prima opera poetica, il Cherubinischer Wandersmann, pubblicata nel 1657 e rielaborata in forma definitiva nel 1675, consistente in una raccolta di epigrammi in cui riflessioni filosofiche e morali, e concetti teologici di non facile comprensibilità, erano rielaborati con estrema sapienza stilistica: venivano utilizzate immagini di icastica espressività e formule letterarie innovatrici, perlopiù in distici alessandrini, rese in un gioco di antitesi, paradossi e sorprendenti metafore.

In questa nuova edizione pubblicata da Molesini e curata dal germanista Gio Batta Bucciol, l’attenzione al testo originario, presentato a fronte e tradotto sottolineando la stringatezza epigrammatica dello stile, è già evidente dal titolo, Il viandante cherubico (Wandersmann), che sostituisce con maggiore esattezza la versione tradizionale più nota de Il pellegrino cherubico. Nell’introduzione viene messa in luce una caratteristica dell’opera di solito trascurata, rispetto alla prioritaria tematica spirituale: l’interesse verso la natura, che assume talvolta connotati panteistici, e risente dell’atmosfera seicentesca segnata dalle scoperte geografiche e astronomiche. Il cielo di Silesius non è più solamente quello divino, chiuso in un rigido schema tolemaico, ma comprende immanenza e trascendenza in una visione unificante di uomo e infinito, suggerendo ipotesi teoriche audaci e per l’epoca destabilizzanti : “Il sole tutto stimola e tutte le stelle fa danzare, / e se anche tu non ti muovi, non appartieni al tutto”, “Tu dici che nel firmamento c’è un unico sole, / ma io ti dico che ci sono migliaia di soli”, “Via la parete divisoria, se devo vedere la mia luce /  non devo ergere muri al mio sguardo”, “Non c’è né inizio né fine, né centro,  / né cerchio per quanto mi volga e giri”. Anche la riflessione sul tempo, nel suo fondersi indistinto con l’eternità, rivela tratti premonitori della fisica a venire, quando adombra addirittura l’ipotesi dell’inesistenza di una qualsiasi scansione cronologica: “Il tempo è come l’eternità e l’eternità come il tempo, / purché tu stesso non crei una distinzione”, “Sei tu a fare il tempo! L’orologio sono i tuoi sensi: / blocca il bilanciere, e il tempo svanisce”, “Non so che fare! Per me è tutt’uno: / luogo, non-luogo, eternità, tempo, notte, giorno, gioia e pena”, “Cos’è l’eternità? Non è né questo né quello, / né attimo, né qualcosa, né nulla: essa è non so che cosa”. Come non ricordare lo sconcerto di Sant’Agostino, quando nell’XI libro delle Confessioni rivela di non riuscire a definire il concetto di temporalità?

Rimane comunque prevalente il fascino delle poesie di carattere più specificamente religioso, che tanto hanno attratto filosofi quali Hegel, Schelling, Kierkegaard, Schopenhauer, Wittgenstein e Heidegger, e poeti come Rilke e Celan, per la consapevolezza dell’insignificanza dell’essere umano, e la sua incapacità di comprendere e raffigurare l’assoluto: “Non so quel che sono, non sono ciò che so. / Sono una cosa e non una cosa: un puntino e un cerchio”. Insomma, Silesius sembra riassumere in sé echi del passato e premonizioni del futuro, soprattutto nell’esprimere l’indefinibilità dell’Essere Supremo. Il suo Dio ha infatti i caratteri dell’Uno plotiniano, inizio e fine, totalità assoluta; ma viene rappresentato anche in maniera antitetica come tutto e nulla, presenza e assenza, diventando erede e premonitore della teologia negativa: “Dio è puro nulla. Non lo sfiorano il tempo e lo spazio”, “Dio non viene ferito da nulla, non ha mai provato dolore: / eppure l’anima mia può ferirgli a fondo il cuore”. Un Dio dei contrasti, insieme imperturbabile e pietoso, di cui non si può e non si sa parlare, perché inconoscibile. Già Plotino affermava “possiamo dire quello che Egli non è, ma non diciamo quello che è. Diciamo di Lui partendo dalle cose che sono dopo di lui”, e Agostino gli faceva eco: “Si comprehendis non est Deus”. Dio che si supera, va oltre se stesso e porta l’individuo a superarsi e a superarlo: “Se Dio non mi volesse portare oltre Dio, / lo forzerei a farlo col solo amore”. Il nostro Ferdinando Tartaglia scriveva pressappoco la stessa cosa, meritandosi una scomunica “vitando”: “Quando io dico ‘Oltre Dio’ / quando io grido ‘Dopo Dio’ / come vorrei essere capito / come vorrei essere capito. / Ma non ò le parole. / Non sarò capito”. Silesius racconta un Creatore che assume addirittura il modernissimo sembiante di divinità debole, che deve essere aiutato dall’uomo a esistere: “Inconcepibile! Dio ha perduto sé stesso, / Per questo egli vuole rinascere in me”.

Secondo le indicazioni della mistica classica, Dio è visione purissima, estasi in cui perdersi, perfezione irraggiungibile: “Dio è il mio bastone, la mia luce, il mio sentiero, la mia meta, il mio gioco, / mio padre, fratello, figlio e tutto quel che voglio”, “Dio è spirito, fuoco, essenza e luce, / ma a sua volta neppure tutto questo”, “Dio è un fiume possente che si porta via spirito e sensi. / Ah, che non sono ancora tutto trascinato via da lui”. Dalla contemplazione dell’Assoluto devono tenersi lontani anche i Serafini e gli “angeli tutti”, perché con il loro fulgore distraggono l’orante dal rapimento: “ora non vi voglio, ora mi immergo solo / nell’increato mare della pura divinità”. Eppure, il confronto con l’Essere Supremo continua a essere ambivalente, talvolta inchiodando la creatura alla sua miseria, altre volte esaltandola in una comparazione quasi sacrilega: “Sono grande come Dio, egli è piccolo come me: / egli non può essere sopra di me, né io sotto di lui”, “L’abisso del mio spirito chiama sempre con forza / l’abisso di Dio. Di’: quale è più profondo?”, “Sono sconfinato come Dio, niente c’è nel vasto mondo / che mi tenga – o prodigio! – racchiuso in sé”, “Sono l’alter ego di Dio, solo in me egli trova / quel che gli sarà simile ed uguale in eterno”. La consapevolezza della propria eccezionale irripetibilità può arrivare alla più presuntuosa delle convinzioni: “So che senza di me Dio non può vivere un attimo. / Se divento nulla, egli deve necessariamente morire” (se ne sarà ricordato Rilke, quando scriveva nel Libro d’ore: “Che farai, Dio, se muoio?”). Se il silenzio è spesso citato come modalità privilegiata di raccoglimento nell’interiorità, troviamo tra i distici anche umanissimi moti di protesta e ribellione verso l’indifferenza celeste: “A cosa mi serve, o Gabriele, il tuo saluto a Maria, / se non hai anche per me lo stesso messaggio?”, sottolineando l’orgogliosa rivendicazione della propria indipendenza: “Mettimi e stringimi tra mille catene, / resterò sempre libero e senza catene”. La stessa fierezza va attribuita a ogni cosa esistente, che nel suo semplice esserci reclama la propria dignità e magnificenza, come nei versi più famosi e citati del Viandante Cherubico: “La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce. / Non bada a sé. Non chiede se la vedi”. Farsi mezzo e fine della creazione, diventare insieme creatura e creazione, è il messaggio che Silesius affida a ciascuno, quello con cui conclude il suo libro (“Amico, ora basta. Se vuoi leggere di più, va’ e diventa tu stesso scrittura ed essenza”), aldilà di ogni teologia, ancora una volta oltre Dio.

 

SILESIUS, IL VIANDANTE CHERUBICO – MOLESINI, VENEZIA 2023, p.180

A cura di Gio Batta Bucciol. Testo tedesco a fronte.

 

TAG:
CAT: Letteratura, Teologia

Un commento

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  1. dino-villatico 12 mesi fa

    Il barocco tedesco è poco o niente conosciuto in Italia. Non parliamo poi della poesia e del teatro. E ciò nonostante il bellissimo saggio di Benjamin sulla drammaturgia barocca tedesca, testo scritto per ottenere una libera docenza che non gli fu concessa. Hofmannsthal commentò: “I professori dell’università non danno la libera docenza all’intelligenza” frase di un sconfortante attualità soprattutto per l’Italia. La poesia dei mistici barocchi andrebbe riconsiderata non solo in ambito di studi specifici. Si pensi alla grandezza dello spagnolo San Giovanni della Croce. Quanto all’inesistenza oggettiva del tempo, Silesius aveva le sue fonti in Aristotele, che appunto afferma che il tempo è solo misura di movimento, idea che piacque molto a Einstein, e Agostino che, sviluppando la teoria aristotelica, nelle Confessioni afferma che il tempo è una nostra percezione, non un dato reale. Bellissima recensione. Di quelle che ormai non si scrivono più. Almeno in Italia.

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