L’insostenibile leggerezza dell’economia su regole europee e mercati finanziari

3 Giugno 2017

Un interessante convegno ospitato dal Dipartimento di Economia dell’Università di Bologna è stata l’occasione per un aggiornamento sui temi del dibattito sulle regole europee, sui problemi di fondo che dovranno essere affrontati in una riforma di queste regole, e sulle risposte che la teoria economica può suggerire. La risposta non è confortante. Non solo le risposte non sono pronte, ma diversi principi dell’economia portano in direzioni opposte. E il nodo al pettine è sempre la profonda incapacità della teoria economica di conoscere i mercati finanziari, salvo poi evocarne a ogni piè sospinto il giudizio come un giudizio di Dio.

Nella discussione sull’Europa la teoria economica divora le proprie creature, e i propri concetti di fondo. Una relazione di un tecnico del Ministero dell’Economia sul concetto di “output gap”, cioè la differenza tra le potenzialità di produzione di un paese e la sua produzione corrente, è stata demolita da uno degli economisti che avevano il compito di discuterla, il collega Paolo Manasse, e duramente attaccata dalla platea da Alberto Zanardi, ex collega e oggi membro dell’ufficio parlamentare di bilancio. Con qualche ragione. Effettivamente la proposta di presentare all’Europa una variante della stima dell’“output gap” che regali all’Italia 0,8 punti di PIL, con una stima esclusivamente svolta sull’Italia può ingenerare il sospetto che il nostro prodotto nazionale più famoso nel mondo, il conflitto di interessi, possa arrivare persino alle stime econometriche.

Se alziamo gli occhi dalla sfida sulle metodologie statistiche che il nostro Ministero dell’Economia si accinge a portare in Europa ai concetti di fondo che stanno dietro le regole europee, la sostenibilità del debito pubblico dei paesi, le contraddizioni emergono profonde. Concetti della teoria economica scendono in campo uno contro l’altro in una sorta di rissa in cui è difficile capire da quale parte stia la ragione. Pietro Reichlin, uno dei nostri “falchi” nel dibattito sulle regole, ribadisce l’importanza della “credibilità”, un concetto che ci riporta a vecchi dibattiti sulla politica monetaria e le aspettative dei mercati. Però a fianco di questo concetto persino un falco oggi riconosce, e questa è una novità, che il tempo concesso con le regole attuali per la convergenza del debito al 60% del PIL è troppo poco. Vent’anni, una generazione, non basta, e un impegno di riduzione su questa prospettiva non è credibile. Ma anche su questa considerazione, sacrosanta, il mio senso di economista pizzica.  Se rivediamo l’orizzonte temporale dell’aggiustamento, violiamo il requisito di “consistenza temporale” della politica economica, e delle regole. Se invece di rispettare le regole nei tempi giusti, le cambiamo o cambiamo l’orizzonte di applicazione (“time inconsistency”), la credibilità delle regole ne risente. Cittadini e mercati anticipano che anche il nuovo orizzonte prima o poi verrà rivisto.

Anche la ricetta proposta dal collega Paolo Manasse soffre in qualche modo di questa malattia, anche se solleva un ulteriore problema estremamente rilevante e non risolto: Paolo Manasse ha suggerito una riduzione delle regole e una verifica che avvenga su orizzonti più lunghi. Su questo si innesca un altro problema economico, molto discusso nel campo della regolamentazione della “governance” delle imprese, ma praticamente inesplorato nel campo delle scelte pubbliche: è il tema dello “short termism”. La necessità di far fronte a verifiche continue impedisce di perseguire fini di lungo periodo. Nei mercati la risposta a questo problema ha portato alla comparsa di fondi chiusi, di “private equity”, e di schemi di determinazione dei compensi e delle retribuzioni compatibili con una visione di lungo periodo. In politica invece non c’è praticamente niente. Il concetto di “responsabilità politica”, e il non essere rieletti se si dà maggiore peso a fini di lungo periodo rispetto alle regole di breve periodo, non ha alcun peso. A essere cattivi si potrebbe dire che responsabilità politica è un ossimoro. Per questo il tema della politica è vincere le elezioni, e non governare. E’ caso mai il caso di osservare che le regole, soprattutto quando sono troppe, sono un’ottima scusa per non governare, e su questo non si può che concordare con il punto di Paolo Manasse. Ma il problema di come far ricadere sui politici le sanzioni che spettano agli stati è ancora tutto da risolvere.

Infine, il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, in collegamento da Roma, ha sollevato un tema essenziale, che nel dibattito ha messo a nudo una delle grandi lacune e contraddizioni della teoria economica moderna: l’assoluta incapacità di comprendere il comportamento dei mercati finanziari e la contraddizione di continuare a evocarne il giudizio senza essere in grado neppure di capirlo, ancorché di prevederlo. Il ministro ha sollecitato una riflessione sul perché i mercati rispondono in maniera diversa a comportamenti simili da parte di governi o paesi diversi. Perché la virtù, un surplus primario dei conti pubblici (cioè al netto della spesa per interessi) sufficiente a garantire il rimborso degli interessi futuri non viene premiato? E perché non viene premiata la crescita (che non è ovviamente il caso italiano)? I mercati hanno ragione o torto? Sono in equilibrio o in disequilibrio? Sono razionali o irrazionali?

No, i mercati non sono buoni o cattivi, sono semplicemente incompresi. Di fatto il ministro Padoan ha sollevato il problema che gli economisti chiamano degli “equilibri multipli”. I mercati possono assestarsi su livelli di prezzi (spread, in questo caso) arbitrari sulla base di scenari che questi stessi livelli di prezzi possono contribuire a realizzare. E possono in poco tempo cambiare livello di equilibrio, anche solo per una frase proposta da una persona credibile, per un qualsiasi “whatever it takes” come quello di Mario Draghi il 26 luglio del 2012. Ma anche qui gli economisti si avvitano nelle contraddizioni. Sulla base di queste considerazioni non si capisce perché la regola europea principale, quella del 3%, sia applicata al deficit complessivo, e non al deficit primario, cioè al netto degli interessi. E’ la variabilità dei mercati che rende questa regola schizofrenica e che porta all’obiezione di Padoan. Ma su questo Pietro Reichlin si è espresso con argomenti che ricordano i medici di Pinocchio. “Il debito cresce anche per il pagamento degli interessi”. “I mercati certe volte sbagliano, ma altre volte hanno ragione”. Insomma, se il malato non è morto, gli è segno che è ancora vivo.

In conclusione, pare che l’economia dovrà chiarire diverse contraddizioni in vista della revisione delle regole europee, perché altrimenti le regole le faranno i politici e saremo punto e a capo.  I numeri dovranno essere aggiornati o resi più flessibili e dinamici, come ha argomentato Luigi Marattin, collega e collaboratore di Palazzo Chigi. Ma la quantità e qualità di regole dovranno essere riviste. Dovranno essere meno. Dovranno essere più possibile coerenti con i fini cui rispondono, cioè il comportamento virtuoso. Dovranno essere quindi sterilizzate dalla volubilità dei mercati e dagli equilibri multipli, a meno che qualcuno non sia in grado di disegnarle in modo da far convergere i mercati verso gli equilibri più virtuosi. Insomma, se non conosci i mercati, certamente non li eviti, ma eviti che distorcano le regole che stabilisci, o che magari le usino addirittura per giustificare e realizzare gli equilibri sbagliati.

TAG: Fiscal compact, Mercati finanziari, Regole di bilancio, Teoria economica
CAT: macroeconomia, Politiche comunitarie

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