Anything goes – Andrà tutto bene

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13 Marzo 2020

Anything goes. Andrà tutto bene, potrebbe tradursi, in un senso esteso; anche se il significato è sottilmente diverso. Non tanto diverso, però, per ciò che seguirà nel mio intervento. “Andrà tutto bene” Sembra il titolo di un musical, uno spettacolo esotico che avrà successo prima in Europa e poi, sulla scia del vecchio continente, nel resto del mondo.

C’è stata una prima in provincia, in Oriente, per vedere un po’ come avrebbe reagito il pubblico e, visto che si è dimostrato uno spettacolo di successo, si è deciso di esportarlo.

Certo, l’Italia, così scenografica, così folclorica, così vitale, soprattutto nel campo dell’immagine, colla sua arte, le sue città, la sua gastronomia, il suo cinema, la sua moda… e colla fantasia dei suoi abitanti; certo, un po’ disordinati, ma è ciò che piace all’estero. Un palcoscenico ideale dove rappresentare con maggiore successo delle prove in provincia il musical “The Virus of the Crown”, il nuovissimo spettacolo confezionato da molteplici autori e registi, che preferiscono restare anonimi per modestia, ma che conoscono perfettamente le leggi della rappresentazione della realtà (…realtà?) per un pubblico sempre affamato di catastrofi e apocalissi.

Perché comunque l’Italia, anche se considerata un po’ come una Cenerentolastra (la Cenerentola titolare è la Grecia) all’interno della UE, è pur sempre il cuore, l’origine di una prima storica unificazione del continente duemila anni fa, mai più ripetutasi fino al 2000, appunto.

Il palcoscenico migliore non è Roma, troppo mondano e troppo infestato di pellegrini (casomai i pellegrini saranno utilizzati al momento giusto come comparse nel terzo atto, per ringraziare l’Ente Supremo per la sopravvivenza); neanche Napoli, troppo disordinata e troppo identificabile con pizza, mandolino e cornetti portafortuna. Il palcoscenico migliore è, oggi, l’ordinata Lombardia, il cuore pulsante dell’economia nazionale (così dicono), dove non si dorme mai ma si pensa solo a lavorare e fare palanche, dove si creano gli abiti per le dive e per il mondo intero, dove i grandi cuochi italiani, star televisive, hanno il loro ristorantissimo a venti stelle, dove la movida è come quella delle città iberiche ma senza mare.

Scelta la location, si inizia a creare lo spettacolo. Vediamo un po’. Chiamiamo gli autori X, Y, Z, perché i veri nomi non li sappiamo. Potremmo chiamarli Francesco, Camilla e Giulio ma X, Y e Z fanno più scena e sono più polivalenti. X scrive i soggetti, Y sviluppa la trama, Z ne conduce la regia. L’apparato è imponente.

L’ambientazione esotica adottata in precedenza è stata anche quella scelta da X con oculatezza, perché la Cina, nell’immaginario collettivo, è un paese sterminato e colle più numerose comunità urbane del mondo; una città piccola in Cina ha almeno due milioni di abitanti, le altre vanno dai dieci ai venti e oltre. La Cina, poi, è sempre avvolta da un certo mistero e le abitudini alimentari dei cinesi fanno cadere in trappola stimati (oddio… stimati, è da vedere) governatori di regioni settentrionali italiane.

La percezione dello spettacolo è veramente impattante quando comincia. Una città semisconosciuta in Europa, Wuhan, con undici milioni di abitanti, viene invasa da un virus misterioso. La gente comincia ad ammalarsi e a star male, sembra un’influenza per sintomi simili, ma è un’altra cosa. Una cosa che non si conosce e che quindi fa più paura. I contagiati aumentano a dismisura con cifre impressionanti da un giorno all’altro e l’intera città viene isolata. Undici milioni di persone chiuse in casa in quarantena per evitare la diffusione del morbo. I contagiati muoiono. La città deserta, spettrale, fantasma. Qualcuno, o qualcosa, riprende lo scenario e lo diffonde in tutto il mondo. Il mondo deve vedere. Cominciano a morire le persone, o almeno così viene detto; muore perfino uno dei medici che voleva un mese prima denunciare la pericolosità del virus ma che era rimasto inascoltato, accentuando la mancanza di chiarezza del regime cinese (ufficialmente). Addirittura vengono mostrate delle impressionanti immagini in cui la gente, chiusa in casa, urla dal balcone o dalla finestra, in massa, “Resisti!”, nel silenzio, senza rumori di fondo del traffico di una metropoli. Solo le voci umane. Poi viene isolata tutta la regione. Certo che Y è bravo a scrivere le trame con tutti i dettagli. Z poi ha parecchia esperienza coi film catastrofici e sa quali immagini scegliere per mostrarle attraverso i media e sconcertare il pubblico.

Il prologo è andato abbastanza bene, non c’è che dire. Ma segue subito il primo atto, senza intervallo, solo un breve tempo per cambiare la scenografia e fare svettare la Madunina sullo sfondo. La Lombardia si scopre contagiata, il Veneto pure, e dopo un po’ vengono chiusi villaggi, piccole città e poi Milano e l’intera regione. Meno degli undici milioni di Wuhan, alla fine, che sarà mai. Ma impressiona perché Milano la conoscono tutti, nel mondo, Wuhan invece no. X e Y hanno fatto centro ancora una volta: la scelta del luogo è fondamentale perché il pubblico proietta immediatamente sé stesso nel luogo celebre e magari ricorda quando c’è stato, le sensazioni che ha provato, il risotto che ha mangiato, i film che sono stati girati in quella città, la prima della Scala, i teatri e i cinema che si fermano… Celebrità dicono la loro, si fermano perfino le sfilate della moda. Ecco, questo è ancora più d’impatto. Personaggi famosi che sono coinvolti nella catastrofe, questa è un’idea di Z, che da regista sa come il pubblico sarà impressionato dalle parole di persone che ha visto solamente su riviste o in tv e che, nonostante siano famose, quindi quasi in una dimensione dove non potrebbe succedere loro alcunché, sono coinvolte in un contagio che si estende. In fondo nei film catastrofici il pubblico vede solamente le vicende di uno o un gruppo di protagonisti che sono per lo più gente comune. Non si vedrà mai cosa succede alla famiglia reale a Londra in “28 giorni dopo”. Questo gli autori lo sanno bene. Le immagini continuano nei giorni successivi e s’intervistano medici spossati, analogamente a colleghi cinesi le cui interviste erano sfuggite (apparentemente) al controllo della censura rigida dell’autorità. Z sa che oggi, collo smartphone, si può pure girare un film, senza bisogno di altri apparati tecnologici. Certo, poi il montaggio fa il resto, eccome, ma anche le immagini rubate o sporche fanno docufilm e hanno un loro pubblico. Siccome l’opera è in divenire, il reality show serve per misurare le reazioni del pubblico e quindi indirizzare la trama in una direzione oppure in un’altra. Non si possono fare morire tutti, bisogna fare immedesimare il pubblico e quindi sì, coinvolgerlo ma non lasciarlo senza speranza, ci vuole sempre un filo che li lasci sperare che alla fine i buoni ce la faranno. Se non tutti, almeno qualcuno dei buoni. Allora da questo morbo terribile che fa chiudere metropoli con milioni di abitanti, qualcheduno riesce a guarire. Renzo Tramaglino e Lucia Mondella si ammalano ma sopravvivono alla peste, sennò il libro finiva lì e i promessi sposi non si sarebbero sposati che in Paradiso. Gli autori su questo sono tutti d’accordo.

La fine di Don Rodrigo

La rappresentazione della realtà attraverso una narrazione ufficiale, ingigantita da una tecnologia sempre più pervasiva, è ormai indistinguibile dalla realtà vera. Ma ne esiste una oppure sono tutte realtà vere e possibili? In fondo sono i limiti della fisica classica, che studia il macromondo, e si vede che non funziona come la fisica quantistica, che immagina un micromondo con altre leggi o forse senza nessuna; la traslazione del micro nel macro diventa un elemento di disorientamento ma mostra come l’infinitamente piccolo, un virus, possa causare dei risultati nel mondo più grande. Coi suoi contrasti, ovviamente, il virus può o non può contagiare e potrebbero esistere, chi lo sa, molte realtà parallele in cui la stessa persona è viva o e morta. Ma non si saprà finché non si aprirà la scatola col famoso gatto di Schrödinger. Che figata, si dicono gli autori.

La rappresentazione della realtà attraverso i media continua nel modo previsto dal copione e opinionisti, ossia gente famosa che dice la propria opinione secondo il personaggio che interpreta, magari senza avere la minima preparazione in medicina o in scienza, e non sapendo quindi come un virus si comporta con il corpo umano, esprime pareri che dividono il pubblico e lo fanno sentire coinvolto, prigioniero in casa, incollato allo schermo. Non è possibile uscire, quindi visitare gli amici o i parenti per paura di contagiare o essere contagiati, il nemico è invisibile. L’unico legame colla realtà è la televisione dove a ritmo continuo non si parla che del virus e del suo percorso ormai pandemico, tutto il mondo viene coinvolto. Gli altri problemi della gente vengono accantonati, non se ne parla più, svaniscono. Probabilmente le persone non ci penseranno più e il potere potrà far passare le riforme più liberticide senza che nessuno se ne accorga. Se qualcuno se ne accorgerà sarà sempre un’esigua minoranza di persone che non conta nulla. Anche questo sanno benissimo gli autori.

I passi del bravo comunicatore sono infatti proprio questi. Innanzitutto i campi in cui si deve sviluppare la narrazione e quindi la rappresentazione.

La percezione, innanzitutto. E, storicamente, la percezione muta a seconda dei mezzi a disposizione per la diffusione dell’informazione che si vuol fare passare. Nel mondo antico, o appena precedente al XIX secolo, quando venne inventata la fotografia e pochi anni dopo la fotografia in movimento, la suggestione proveniva da cantastorie e da artisti che rappresentavano mitologie su mosaici, marmi, dipinti, e il pubblico tramandava quella narrazione rifacendosi a quelle immagini. Oggi la tecnologia dell’immagine e, soprattutto, della trasmissione di quell’immagine perfino in tempo reale, ha rivoluzionato la percezione. Come muta il virus così muta la percezione, colla stessa medesima velocità, e diventa più pervasiva perché è immediatamente comunicabile in ogni parte del pianeta. Si è visto coll’11 settembre 2001: la caduta del WTC in mondovisione. Il nuovo secolo che si apre con un evento che ribalta la percezione della realtà. X, Y e Z lo sanno benissimo e hanno costruito la loro fortuna su questo: l’effetto di realtà non è dato dalla realtà stessa ma da come la rappresenti e quindi la realtà, lungi dall’essere ciò che avviene in un posto o in un altro, diventa ciò che avviene sullo schermo televisivo o cinematografico e così si imprime nella mente dello spettatore che conserverà quelle immagini nel profondo della memoria e vi costruirà sopra la propria rappresentazione della realtà. Questa realtà, nel nostro caso, è formata da immagini di città deserte, titoli che scorrono di continuo con cifre, senza che nessuno possa verificare che queste cifre siano autentiche (ma sono reali in quanto rappresentate), appelli a stare chiusi in casa, opinioni di medici che non sono d’accordo tra loro, opinionisti che litigano come fanno abitualmente, infermieri estenuati, telecamere che vanno a frugare in reparti di rianimazione mentre individui mascherati raccontano la loro realtà, e così via. Ed ecco qui servita la simulazione della realtà. Simulazione che poi ognuno ricondurrà alla propria esperienza e alla propria sensibilità. Simulazione perché quelli possono essere frammenti di realtà, o forse no, ma comunque assemblati per ottenere una narrazione. E poi la maggior parte delle persone ha già un’abitudine ai disaster movie, dove si parla di catastrofi, epidemie, situazioni al limite della sopravvivenza. Ma è impossibile verificare, per cui rimarrà sempre il dubbio che la realtà rappresentata non sia quella vera, che chissà poi qual è. Viene perfino il dubbio che per dare maggiore credibilità alla narrazione vengano costruite apposta delle fake news, riconosciute ufficialmente poco dopo come fake, in modo da far risaltare la storia principale come unica degna di attendibilità. Certamente un virus c’è e sta facendo vittime, ma sembra che le persone riescano anche a guarire dall’infezione, come accade per molte altre malattie virali. La reazione dei vari governi, poi, è talmente contraddittoria che non si riesce a capire quale realtà essi vogliano che sia rappresentata. Succede anche che ci siano contrasti tra gli autori e la produzione, Hitchcock spesso non era contento dei film che fece proprio perché la produzione gli impose degli attori o dei tagli.

È un tipo di narrazione che ebbe inizio in epoca romantica con Mary Shelley che, nel 1826, fa pubblicare il suo romanzo L’ultimo uomo. La pestilenza è la causa dell’estinzione umana. La stessa Mary Shelley lo definirà la sua opera migliore anche se Frankenstein superò per fama qualsiasi altra opera dell’autrice. Avevo dimenticato di aggiungere questo libro, L’ultimo uomo, alla precedente lista delle letture adeguate in questo periodo di soggiorno quasi obbligato in casa, perché è utile la riflessione, soprattutto se si vuole evitare l’angosciante invasione emotiva della televisione.

Dal Romanticismo in poi è stato un crescendo di fini del mondo letterarie e, più avanti, cinematografiche, anche perché le vicende mondiali con guerre sempre più macroscopiche e sterminatrici e la successiva tecnologia della comunicazione hanno alimentato la percezione della fragilità umana.

Possiamo affermare che il Romanticismo e i suoi postumi non sono mai finiti, anzi sono utilizzati parecchio nelle simulazioni della realtà e queste visioni apocalittiche e millenaristiche tipiche degli ultimi tempi ne sono la conferma.

Il ribaltamento delle regole democratiche durante i periodi di crisi, come quello creato da una pandemia, è sempre il soggetto di film come Cassandra Crossing, Contagion, 28 giorni dopo, World War Z, Io sono leggenda, e così via, e l’industria cinematografica ha sempre più raffinato i suoi mezzi per rappresentare una realtà distopica, rendendola tale da farla percepire come possibile.

Quella che stiamo vivendo attualmente è una rappresentazione. Non ci è dato sapere cosa realmente succeda, perché non ci viene raccontato nella sua vera essenza. Ciò che ci viene raccontato è una storia, o più storie da parte di X, Y e Z. A volte ci sono anche più X, Y e Z, e non sono necessariamente tre entità singole. L’informazione, o ciò che noi crediamo che lo sia, occupa totalmente la vita della società, ora più che mai. La nostra esistenza esiste solo attraverso i media e il cambiamento delle regole che questa nuova rappresentazione dell’esistenza implica diventa automaticamente la motivazione per una nuova forma di organizzazione che non avrebbe ragione di esistere e che ha un risvolto liberticida. Mentre si distrae la gente con una narrazione, si fanno passare provvedimenti che riguardano i conti correnti bancari, la politica energetica e molto altro in ultimo piano, senza che l’attenzione della maggior parte della gente possa soffermarcisi troppo. Tutto converge verso una percezione distorta del reale. La disattivazione della realtà diventa virale come il virus. Anche nella terminologia usata dai commentatori televisivi, per esempio. L’immagine dell’infermiera estenuata dell’ospedale di Cremona è diventata “virale”, e il termine è usato quasi senza accorgersene da tutti, senza correlarlo al virus reale che sta cambiando la vita della gente. Ed è singolare come l’immagine si diffonda epidemicamente in parallelo alla diffusione del virus, amplificata dalla tv e dalla rete, mandata a milioni di utenti attraverso i social, alimentando l’ansia di condivisione di un frammento di realtà o supposta tale. Alla fine ci si arriva. X, Y e Z sono il Potere. Ma la realtà, di là da ogni sua rappresentazione distorta da parte del potere, potrebbe essere perfino molto peggiore, nascondendo qualcosa che può essere sfuggito di mano.

Se una storia viene raccontata come vera da più parti, anche se non lo è, alla fine viene data per verosimile e poi finisce per diventare vera. Un po’ come l’episodio della “prima” proiezione di un film della Storia del cinema, che la prima in assoluto non è, “L’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat” (1896) dei fratelli Lumière: si dice che il panico assalì il pubblico, pensando che il treno stesse per travolgere le persone che assistevano all’evento. La storia, per quanto verosimile e suggestiva, non fu mai accertata e probabilmente fu messa in giro a partire dagli anni ’50 del Novecento. È suggestiva perché si nutre dell’aspetto fantasmatico del cinema e quindi della reazione personale di ogni spettatore verso l’immagine proiettata, figuriamoci le prime volte che succedeva. Ma, raccontata e riraccontata migliaia di volte, è finita perfino sui manuali di storia del cinema e in articoli di critica come vera. Probabilmente è stata anche usata per film e per romanzi, la migliore dimensione della faccenda: la fiction.

Come è una fiction un film come Contagion (2011) di Steven Soderbergh, che, assai scaricato e richiesto, sembra avere una seconda vita proprio in questi giorni di vita casalinga forzata. E la finzione, con tutti i limiti che ha, può avere anche una funzione ansiolitica per il dolore intenso che ognuno prova di fronte all’ignoto e ai suoi misteri, per sentire che il proprio dolore è condiviso, per non sentirsi soli e isolati. Ma mai considerare la finzione realtà, bisogna sempre tenere alta la guardia. Strana coincidenza: l’inizio del contagio, nel film, si manifesta proprio in Cina.

Non lo sapremo mai, almeno in tempi brevi, cosa sta succedendo; può darsi che la nebbia si dissolva come che no. Nel frattempo, leggere può mantenere in vita i neuroni.

Andrà tutto bene?

 

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