È ora di legalizzare le marchette nei giornali (per il bene dei lettori)
Quante marchette passano quotidianamente da un giornale? Quante – soprattutto – sono percepite come tali dai lettori, perché questo è il problema. Qualche giorno fa, come un Pokemon che si aggirava tra le pagine, ne ho beccata una, plastica, fresca come acqua di fonte e risalendo il corso ancora un’altra e sempre dello stesso autorevole giornalista. Che poi è uno famoso, letto, sentito. Quando gli ho scritto via twitter, come fossi un suo lettore qualunque (e poi io sono davvero un lettore qualunque) mi ha detto trattarsi di “spiacevole equivoco”. Gli avevano messo la firma sotto un pezzo pubblicitario, i cattivoni, e quella firma non doveva comparire, ma il pezzo comunque era suo. Spiacevolissimo equivoco, come no. Ma non è sempre così evidente la faccenda. O meglio, spesso è evidente la marchetta, ma non il contesto quando è fraudolentemente giornalistico. L’interessato si protegge con la confezione del prodotto, con la sua qualità complessiva e all’interno di un contesto “credibile” ci piazza l’erba cattiva. Il che, ovviamente, gli vale sempre qualcosa in cambio. Per non essere ingannato, il lettore dovrebbe trasformarsi in un investigatore che passa lunghe ore della sua giornata a verificare, decrittare, mettere a confronto. Un lavoro. E poi perchè. Sono gli editori che dovrebbero garantire il pubblico decoro. E che spesso, invece, sono conniventi. Quanto ai nostri ordini professionali, sulla carta è tutto chiaro. Chi fa marchette è fuori. Nella pratica non succede nulla, a meno di fatti più che eclatanti.
Qui lancerei una modesta proposta. La via professional-moralistica è fallita. Nessuno è in grado di fare le pulci a nessuno, nessuno lava più bianco, il mondo dei giornali vive nella diffidenza reciproca da lustri e lustri. Chi si permette di muovere un appunto, cadrà sotto i suoi stessi rilievi prima o poi. La questione deontologica, fa tristezza doverlo ammettere, è completamente neutralizzata dalla disinvoltura. Gli ordini professionali, che si rifanno appunto alla deontologia, non hanno più alcun senso nè alcuna funzione. Tra l’altro in questo modo, con una deontologia puramente di facciata, il giornalista ha sempre buon gioco a proteggersi con le regole del gioco, con le connivenze interne, quando non sono proprio i suoi superiori a indirizzare (o imporre) le sue marchette.
È il momento di legalizzare la nostra disonestà professionale. Di depenalizzarla, o meglio di de-moralizzarla. Di consentire a tutti noi di rivelarsi, di mettere in “chiaro” debolezze, connivenze, interessi, di fare emergere il sommerso dei non detti, dei non rivelati. E disvelarli, finalmente. Senza ipocrisie, ma con una formula chiara che nel cinema è diventata prassi corrente quando in una scena si piazza una marchetta, una bottiglia d’acqua minerale, un pacchetto di sigaretta, una certa marca di automobili e via così. Nei titoli che scorrono sullo schermo troverete questa espressione: «Product placement», praticamente pubblicità occulta che si ha il buon gusto, sancito per legge, di dichiarare preventivamente. È il momento che anche i giornali si dotino di questa formulazione, che naturalmente andrà espressa in prima pagina: «Questo giornale può contenere marchette» o se volete, un più elegante «articoli pubblicitari». Il lettore, così avvertito, potrà naturalmente scegliere la strada più vicina ai suoi sentimenti: pagare più serenamente il suo euro e cinquanta perchè finalmente coinvolto nella depravazione regolamentata, oppure abbandonare la lettura come anima bella in cerca idealmente di una vita migliore (ma inesistente).
In questo modo, forse, metteremo anche un filo di imbarazzo in più nei nostri cari amici di marchetta. I quali si troveranno nella infelice condizione di sentirsi finalmente più liberi di agire ai danni dei lettori, ma con la responsabilità di non potersi più riparare sotto l’ombrello editoriale di un prodotto deontologicamente protetto, di un’organizzazione sociale la cui “mission” è il miglioramento culturale dei suoi lettori. No. Si dirà sin dalla testata che le marchette sono contemplate e che gli ombrelli son finiti. Così pioverà merda, finalmente.
8 Commenti
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Va bene, il nome del giornalista non può ovviamente dircelo. Quello della testata neppure. Ma almeno l’argomento sì, no?
Mi permetta di fermarmi qui, era solo lo spunto per parlare di un problema serio nel modo che ha letto. Evito con cura moralismi, o il dito puntato. La ringrazio e a presto, mf
Ormai esiste una regola, nel mondo delle marchette e riguarda soprattutto il mondo degli alimenti: più è pubblicizzati più
Ormai esiste una regola, nel mondo delle marchette e riguarda soprattutto il mondo degli alimenti: più è pubblicizzati più
Ormai esiste una regola, nel mondo delle marchette e riguarda soprattutto il mondo degli alimenti: più è pubblicizzato, un alimento, più è di dubbia qualità malla faccia di Testimonial più o meno conosciuti intenti a parlare con galline (propriamente dette) di turno… O no?
Caro Michele, da giornalista a giornalista, devo dirti che tu, sotto la parvenza dell’ironia (ma lo è davvero?) auspichi la devastazione di quel poco che rimane della tua professione e della mia. Già ora, io ritengo che il disastro dell’editoria italiana, con molte testate chiuse e molte altre che agonizzano, sia dovuto solo in parte al web che ha svuotato le edicole e alla crisi economica che ha fatto altrettanto con i portafogli. Il problema reale, che né gli editori né i giornalisti ammetteranno mai, è proprio la scarsa credibilità delle testate e dei molti che ci lavorano dentro, che ha portato i lettori a fare questo perverso (ma giusto) ragionamento: “Perché investire denaro per acquistare un’informazione inquinata quando posso averla gratis dal web?”. L’idea che tu favorisci sigillerebbe con il marchio della disfatta la professione e sancirebbe la sua resa davanti alle leggi della pubblicità e del marketing, con il risultato di condannare definitivamente all’estinzione i giornalisti veri, le loro retribuzioni e le loro pensioni. Le marchette sanno farle tutti, i vero giornalismo no. Ma se si facesse di tutte le erbe un fascio, perché mai un editore dovrebbe pagare la giusta retribuzione a uno pseudo-giornalista marchettaro quando può servirsi, a tre euro al pezzo o anche meno, di un liceale-marchettaro certificato, senza morale e senza deontologia, che intende arrotondare la mancetta di papà scribacchiando qualcosa per far vendere qualcosa d’altro e guadagnarsi così lo stesso tesserino che porto in tasca io? Mi dispiace, ma non ci sto. Per prima cosa perché avendo in tasca proprio quel tesserino che mi sono conquistato senza far marchette a nessuno, intendo continuare a rispettare le regole che comporta. Secondo, anche se mi sento già con sei corde intorno al collo, non intendo fornire a nessuno gli strumenti per stringere la settima e ultima corda che mi strangolerebbe definitivamente. Se vuoi evitare i moralismi e le dita puntate, fai pure. Per quanto riguarda me, ho una morale e dieci dita. E intendo sia far valere la prima, sia puntare le seconde. Buon lavoro.
ma in teoria esistono già i famosi “redazionali” “sponsorizzati” ecc. ecc. il problema è proprio questo. secondo me occorre il contrario: quei pochi articoli frutto del libero pensiero dovrebbero essere incorniciati di qualche colore ormai non simbolo rubato da alcuna campagna e portare una piccola scritta: “SENZA MARCHETTE”.
Dai cosiddetti “redazionali sponsorizzati”, infatti, i giornalisti degni di questo nome dovrebbero star lontani come dal virus della peste. A meno che non vogliano guadagnarsi qualche sanzione dall’Ordine.