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Media

L’impatto del digitale sulla pubblicità

di Giulia Coia
2 Luglio 2015

Nella Sala Aldo Moro della Camera dei Deputati si è parlato questo pomeriggio degli effetti del digitale sul mondo dell’Advertising, un settore che occupa ad oggi un terzo del mercato. Uno dei primi argomenti affrontati è stato il rapporto direttamente proporzionale che intercorre tra Pubblicità, consumi e PIL che può spiegarsi con due grandezze correlate: le aziende e la crisi che ha impedito loro di investire in comunicazione.  O meglio, nella vecchia comunicazione -quella divisa nei tradizionali silos della carta stampata, della radio e della TV- in cui gli editori ancora credono vendendo gli spazi pubblicitari a prezzi  e marchi stabiliti da loro. Una strategia fallimentare che ha allontanato-escluso gli investitori ed ha portato alla nascita di network che aggregano gli spazi invenduti degli editori. Con i loro algoritmi che intercettano i consumatori per le loro azioni, i network offrono efficienza ed efficacia per individuare dinamicamente il target. La parola d’ordine del Programmatic Buying è Crossmedialità, il media-mix che tiene conto delle caratteristiche di ogni mezzo –superandone i limiti- e che soddisfa i bisogni con un prodotto che si auto-completa.  La filiera di una volta era dettata da domanda, offerta ed agenzie intermediarie. Oggi il puzzle dei player è più sofisticato. Nasce così un nuovo mediatore: l’analisi comportamentale. La discussione odierna gira infatti attorno alla Fruizione e ai trucchi cognitivi che la rendano continua ed accattivante. Oltre alle classiche analisi, sono i dati di investimenti pubblicitari a farci capire quali siano, oggi, le tendenze di consumo informativo preferite dagli utenti: il Search, il Video ed i Social. Questi ultimi, nello specifico, vantano il 95% di penetrazione su dispositivi mobile. Che siano essi Smartphone o Tablet il risultato non cambia: lo schermo si definisce “di prossimità”, con cui si twitta (ergo dialoga) con l’utente. Le trasmissioni televisive -che ancora si tengono alte sulle 4 ore e 51 minuti di visibilità- si sono dotate di profili cinguettanti e pagine Facebook per raccontarsi in diretta ed ottenere quel feedback da sempre cercato e per cui sono state sempre demonizzate dalle teorie sociologiche. Il famoso “bullett” della scuola di Francoforte non è più la televisione, ma la pubblicità che si addentra nei nostri schermi  (quante volte avete cliccato “salta riproduzione”?) e nei nostri server. Il tema dei big data e dei cookie –già ampiamente affrontati nella Relazione annuale del Garante della Privacy) pone anche i problemi del mercato fraudolento, della prolificazione di software che attaccano la pubblicità e della tutela del marchio, che essenzialmente è in pasto alla rete. Un’arma a triplo taglio pronta a falsare la raccolta dati e a colpire la web reputation. Anche in questo caso è meglio che la digitalizzazione sia intesa come sinonimo di arricchimento, non di scorciatoia.

 

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