Requiem per GigaOm. Uno sguardo dalla tomba sul giornalismo del presente
La fine di GigaOm proclamata la mattina dello scorso 9 marzo, è la cacciata dal paradiso nerd, la prova che il reale non è razionale, la desertificazione che prosciuga la fonte del Gilgamesh digitale – chiunque egli sia, se ce n’è uno. O forse è la dimostrazione che la Comunione dei Santi non è una branca del cloud computing, e che Dio non cerca le anime su Google in vista del Giudizio Universale. Uno dei progetti che più brillavano sulla carta per ricchezza di offerta e articolazione delle soluzioni, è finito divorato dall’impossibilità di saldare i conti dei creditori. Qualcosa è andato storto, e l’idillio tra spirito e materia è immediatamente naufragato.
L’operazione aveva rastrellato 8 milioni di finanziamenti tra l’anno della fondazione, il 2006, e oggi. Ma i fondi dovevano mantenere un’impresa con 75 dipendenti, 16 dei quali popolavano la redazione giornalistica della testata, un dispositivo tecnologico pronto a reggere l’accesso di 6,5 milioni di utenti unici al mese, l’organizzazione degli eventi, la preparazione e la pubblicazione dei paper di approfondimento e di ricerca.
La formula dell’offerta informativa era articolata in notizie, formazione e ricerche. Tutto il pacchetto doveva funzionare garantendo l’indipendenza della testata dal rapporto con qualunque genere di inserzionista: l’obiettivo era conquistare la scomparsa della comunicazione pubblicitaria dal sito, liberando la testata da ogni forma di polemica intorno alla dipendenza dell’attività redazionale dalle inserzioni di qualunque brand tecnologico. Secondo le dichiarazioni di Paul Walborsky, ex amministratore delegato di GigaOm, il fatturato nel corso del 2014 era garantito per il 60% dalla vendita dei contenuti di ricerca, per il 25% dagli eventi, e per un 15% residuale da forme delicate di native advertising.
Eppure l’insostenibilità finanziaria della testata è da imputare proprio ai costi necessari per la generazione dei contenuti di ricerca. Lo sviluppo delle attività di indagine e di analisi coinvolgeva team di lavoro molto più estesi di quelli destinati al presidio dell’informazione quotidiana e all’organizzazione degli eventi, composti da collaboratori interni e da freelance. I pacchetti di abbonamento annuale erano proposti con una forbice di prezzo tra i 300 e i 5 mila dollari, ma con volumi di vendita che non sono mai riusciti a coprire i costi, né a prospettare una crescita capace di persuadere i finanziatori della solidità del loro investimento, e soprattutto della promessa di ricavarne prima o poi un profitto. Sito ed eventi sono riusciti a raggiungere il break even, ma il segmento più consistente del modello di business della società non ha mai raggiunto questo scopo nei nove anni di sopravvivenza della testata.
Le riflessioni che sono state condotte negli ultimi giorni riguardano sia lo stato del mercato in cui GigaOm si è trovata a muoversi dopo l’ingresso di Politico Pro e di Business Insider sullo stesso cluster di pubblico, sia la tipologia di argomenti che sono stati presidiati dalla redazione dedicata: nell’ultimo anno il focus era collocato sul cloud computing e sui big data. La disponibilità delle imprese ad investire in formazione e in analisi su questi temi è meno estesa di quanto si aspettassero i finanziatori. È una brutta sorpresa quando ci si accorge che l’innovazione tecnologica e l’approfondimento sulle opportunità dischiuse dalla rivoluzione inarrestabile del digitale non attraggono (abbastanza) i destinatari privilegiati del nuovo business, promesso dietro la porta. Ma si tratta probabilmente di una distorsione percettiva di chi abita dalle parti della Silicon Valley; qui da noi nessuno si sarebbe seriamente sorpreso per un esito del genere. Ciascuno cade nelle imboscate che merita il suo Paese.
Rafat Ali, ex membro del comitato consultivo di GigaOm, osserva che le imprese del settore media esigono un periodo di gestazione dai sette ai dieci anni, prima di poter contare sul pareggio di bilancio. Le formule che includono servizi B-2-B non possono aspirare a comprimere questi tempi, che hanno tutte le caratteristiche per essere fisiologici. Eppure la combinatoria su cui si sarebbe dovuta reggere GigaOm sembrava la migliore possibile. La riserva più ampia di fondi si sarebbe dovuta accumulare dove ci sono più soldi, nel segmento delle imprese e dei servizi business. Un secondo bacino di drenaggio si sarebbe aperto con la rivendita nei servizi di formazione delle conoscenze acquistate tramite la ricerca; il segmento dell’advertising sarebbe stato ridotto a risorsa marginale, in forza di una riflessione oculata sul valore in regressione continua di questo mercato.
Le idee erano giuste, le dosi corrette. Eppure il dispositivo non ha funzionato. Con cosa si è mancato di fare i conti? Forse con l’estinzione del referente delle attività di ricerca e di informazione, con la morte dell’opinione pubblica e con la trasformazione dell’interlocutore e delle sue esigenze. Gli utenti business non pagano per accedere a quello che devono sapere, ma per sapere cosa devono decidere. Però questo tipo di merce può essere venduto soltanto da chi è in grado di modificare con le sue parole la realtà di cui parla – o comunque da coloro cui è attribuita questa reputazione. I lettori possono pagare per scorrere le colonne dei giornali che costringono i ministri a dimettersi o forzano l’agenda del governo a impegnarsi su un tema di riforma invece che su un altro; i manager accettano di sborsare somme rilevanti per sapere cosa decideranno le istituzioni in materia finanziaria e di regolamentazione di settori economici. Non per conoscere quello che è successo ieri, o per individuare alcune prospettive possibili sul futuro, intorno alle quali però né la testata né il giornalista sono in grado di forzare la mano di chi-di-dovere. Persino una testata di grande successo come GigaOm non sembra essere in grado di operare in modo prescrittivo sul segmento di realtà che ha presidiato con tanta autorevolezza per nove anni: nessuno sembra essere capace di dirigere i programmi di innovazione di Facebook o di Google, o di decretare il successo o il fallimento dell’offerta di cloud computing di Apple o di Amazon con le sue analisi.
Le indagini di GigaOm, di cui personalmente avverto già la nostalgia, non sono insostituibili perché non hanno il dono delle previsioni che si autoavverano. La fonte della conoscenza non è quella del potere, e anche Gilgamesh finisce male, nonostante la sua storia affascinante. Nell’epoca del sapere diffuso, la competenza ha un valore marginale quasi nullo; e la minaccia reale della nostalgia non basta a cambiare di segno questa prospettiva.
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