Il digitale ha già cambiato la scrittura: ma il “bello” deve ancora venire

6 Marzo 2019

I dati relativi alle copie dei quotidiani vendute sono impietosi: si legge poco il cartaceo, si legge molto online e possibilmente gratis: negli ultimi dieci anni la diffusione dei quotidiani italiani si è più che dimezzata passando da 5,4 milioni a 2,6 milioni di copie giornaliere, come indicato dal Report 2017 della FIEG. A questo si aggiunge un calo complessivo degli introiti pubblicitari del 27%, che passano da 8,8 a 6,4 miliardi di euro, con un conseguente calo del fatturato pubblicitario dei quotidiani e dei periodici di oltre il 60%. I dati Audipress del 2018 rilevano un dato di 16,3 di lettori su carta o digitale in un giorno medio, ovvero il 30,3% della popolazione italiana adulta. Le testate internazionali come il New York Times o il The Guardian per ora tamponano le emorragie con un sistema di abbonamenti, donazioni e paywall che argina le perdite, ma in Italia il meccanismo sembra non garantire un bacino di utenti e di introiti sufficienti a garantire una buona qualità di vita dei quotidiani e delle riviste.

 

Carta vs digitale

Il digitale ha contribuito in maniera significativa alla crisi della carta, proponendo un modello di lettura caratterizzato dalla facilità di accesso ai contenuti e dalla gratuità, eppure non bisogna dimenticare che oggi si legge di più – in termini assoluti – di quanto non si facesse prima dell’avvento del web e la quantità di informazioni disponibile al pubblico è cresciuta fino a raggiungere quantità incalcolabili. Mentre si attende il debutto del “Netflix dei giornali” per l’ambiente Apple, che potrebbe ridare un po’ di ossigeno al comparto asfittico dei giornali, si legge in modo frammentato, saltando da un post a un articolo, scrollando il feed di Twitter e sbocconcellando longform che vengono per lo più accantonati grazie alla funzione di procrastinazione eterna “leggi dopo”.

Il digitale ha cambiato completamente le regole del gioco e se si legge in modo differente, si scrive anche in modo diverso. Tra gli apocalittici che vedono il tramonto della civiltà gutemberghiana dietro ogni finestra del browser e gli integrati che sostengono che la nostalgia della carta sia un sentimentalismo da necrofili, il dato oggettivo riguarda una generale flessione nella qualità della scrittura fruibile online. Si scrive sotto il diktat del SEO che influenza la forma dei testi e la scelta degli argomenti, la riduzione progressiva degli introiti e la velocità di produzione dei contenuti ha fatto scomparire figure come il correttore di bozze (o del correttore tipografico, figura la cui nascita risale al XVI secolo per rispondere alla nascente bisogno di uniformare linguisticamente i testi del tempo) mentre le redazioni – spesso microredazioni – sono sempre più leggere, composte da collaboratori esterni sottoposti a ritmi produttivi che antepongono la rapidità alla qualità, una condizione che accomuna quei precari cognitivi raccontati da Raffaele Alberto Ventura in Teoria della classe disagiata.

Scorrendo la media dei giornali online, William Strunk Jr., autore di The Elements of Style, uno dei più celebri manuali di scrittura per l’inglese americano, probabilmente sarebbe trasalito. Alla quantità di refusi si aggiungono svarioni lessicali dagli esiti comici, errori semantici o qualche caso non raro di coniugazioni verbali creative, più facile da intercettare nei testi italiani che in quelli inglesi per la ricchezza intrinseca della lingua. La decadenza linguistica percepita è stata accompagnata dalla nascita della categoria antropologica del “grammar nazi”, che imperversa sui social network mettendo alla berlina gli strafalcioni on line o accanendosi su questioni grammaticali, come l’utilizzo improprio e dilagante del “piuttosto che” come disgiuntiva. A vigilare sull’italiano di consumo rimane l’Accademia della Crusca, che invece di barricarsi nella torre d’avorio di un culto linguistico ha abbracciato lo spirito del tempo e interviene su web dispensando pillole informative e interagendo con gli utenti attraverso l’hashtag #LaCruscaRisponde. Se da un lato i giornali e parte della letteratura hanno accolto la lingua parlata come elemento vivificante della lingua scritta, c’è chi non vede di buon occhio la contaminazione tra il linguaggio orale e il testo, una diatriba che riporta alla mente il Manzoni dei Promessi Sposi e la sua scelta di usare il fiorentino parlato dalla borghesia che ha rivoluzionato la letteratura moderna.

Luca Serianni, linguista e filologo, Accademico dei Lincei e vicepresidente della Società Dante Alighieri, nel suo La lingua nella storia italiana evidenzia come il rapporto tra norma e lingua sia un tema vivo e che non esista un unico italiano, ma che “ciò che viene sentito come errato in un contesto comunicativo può essere considerato corretto in un altro. Non più violazione di una legge, l’errore va quindi considerato uno scarto rispetto all’uso generalizzato nel caso in questione. È necessario, di conseguenza, che il linguista, il più delle volte abbandoni la prospettiva del grammatico-legislatore (o, nel peggiore dei casi, dittatore) e assuma quella del grammatico – osservatore”.

Pro o contro la liberazione della lingua, leggendo libri Come non scrivere di Claudio Giunta o Come lo scrivo? L’italiano va dove vuole di Donata Schiannini si coglie come il dibattito non riguardi più solo gli addetti ai lavori ma si sia allargato creando discussioni online, fazioni di sostenitori o detrattori da tifo calcistico.

 

Una crisi di forma e contenuto

Se la lingua non è un monolite, è altrettanto vero che la alla percezione di una forma debole, a una crisi della forma si associa una crisi dei contenuti; così insieme alla dismissione delle regole sintattiche e l’archiviazione dell’interpunzione (chi ha il coraggio di usare un punto e virgola in un articolo online merita una medaglia al valore), il punto nodale è la perdita di autorevolezza dei giornali e, per proprietà transitiva, della parola scritta. Il tentativo di avvicinare il parlato allo scritto, la confusione tra fatti e commenti, l’uso massiccio di foto e video delle testate online ha concorso a creare un rumore giornalistico che stordisce il lettore. La scrittura digitale spesso non è solo sciatta per manchevolezza di chi scrive: sovente è costretta a un appiattimento sul linguaggio dei social network o semplificata in maniera forzosa per andare incontro alle esigenze di un pubblico sempre più distratto e carente nei termini del tempo che è disposto a investire per leggere.

D’altro canto esiste una tendenza speculare e contraria che attesta una ricerca di qualità incarnata da realtà editoriali come The Atlantic, MonocleVox o, per guardare alla scena italiana, Il Tascabile (progetto laterale di Treccani) e Il Post, che hanno fatto dell’approfondimento, del rigore e di una linea editoriale chiara e autorevole il proprio punto di forza. Si tratta di riviste che non hanno semplicemente adattato la forma cartacea al digitale ma hanno seguito un’evoluzione delle forme dell’inchiesta, dell’articolo di analisi, del reportage narrativo declinandolo all’interno dei media digitali attraverso una voce ben distinta, una voce che conta più della singola firma giornalistica.

Ad oggi è difficile però fare una previsione a medio – lungo termine riguardo alla vita delle testate, sia che si tratti di giornali di indiscussa qualità, sia che si tratti di realtà diversamente connotate. Il punto debole è l’investimento pubblicitario, che ha subito una flessione pesante con l’ingresso sul mercato dei grandi player digitali quali Google e Facebook e non è più sufficiente a coprire il fabbisogno vitale dei giornali.

Se mettiamo sotto la lente Buzzfeed, un colosso nell’infotainment che ha costruito la sua fortuna su titoli d’effetto e sull’utilizzo scientifico dei dati, vediamo che neanche un sistema preso a modello per lungo tempo sembra più reggere alla pressione economica imposta dal digitale: Buzzfeed ha fatto scuola affiancando contenuti leggeri, dal potenziale tasso di engagement elevato, a una parte di news più solida e strutturata. L’idea è stata di ottenere ricavati dai contenuti “virali” senza dipendere dalla pubblicità e finanziando così la parte di qualità, ma questo non è bastato a garantirgli una posizione privilegiata, soprattutto a causa delle strategie di visualizzazione degli articoli di Facebook e di un presunto coinvolgimento nella vicenda dell’ingerenza russa nelle presidenziali americane che li ha penalizzati. È notizia recente l’annuncio del licenziamento di circa 200 dipendenti su un totale di 1450 (per un approfondimento rimando all’articolo di Emanuele Menietti su Il Post). Un precedente negativo che non promette niente di buono.

 

Scrivere semplice o semplificato

I giornali sono uno strumento di acculturazione potente ma oggi il lessico utilizzato, la struttura logica degli articoli, la grammatica risultano di livello carente. Vi è però una tendenza alla semplificazione che ha un’eco politica e riflette una generalizzata ostilità verso tutto ciò che si configura come autorevole. Se la cultura è considerata appannaggio dell’elite, la scrittura deve abbassarsi, scimmiottare il parlato, semplificarsi. Pena: lo stigma sociale.

E’ quello che succede nel romanzo distopico di Giacomo Papi Il censimento dei radical chic, che si apre con l’assassinio di un professore che osa citare Spinoza in un talk show e racconta di un’Italia molto simile a quella odierna, in cui l’Autorità Garante per la Semplificazione della Lingua Italiana censura i termini tecnici e le parole difficili, dove il ministro degli Interni crea una lista di proscrizione per gli intellettuali e su tutto si allunga l’ombra grottesca del Ministero dell’Ignoranza:

“La Nuova Grammatica della Lingua Italiana, uno snello manuale di appena 57 pagine, naturalmente disponibile anche online, stava per essere mandato in stampa ed essere distribuito gratuitamente ai cittadini. Conteneva misure assai popolari, come l’abolizione per decreto del congiuntivo in ogni sua forma e accezione, dei trapassati prossimi e remoti, della distinzione tra predi- cato nominale, attributo e apposizione (che nessuno in Italia aveva mai davvero capito) e dei segni d’interpunzione tutti “d’ora innanzi sostituiti dai tanto più espressivi e pratici emoticons Y”. Fu altresì intrapresa un’energica azione di facilitazione sintattica per scoraggiare l’ipotassi, cioè la strutturazione del discorso in periodi subordinati disposti su livelli multipli, a beneficio della paratassi, che consiste nell’attitudine a scrivere, parlare e pensare solo per frasi principali.”

Viene voglia di rileggere il classico di Victor Klemper, filologo ebreo tedesco (ne parlano Silvia Ballestra su Doppiozero e Gianrico Carofiglio in La manomissione delle parole) che in LTI. La lingua del Terzo Reich disseziona la lingua nazista svelandone il funzionamento, una lingua definita dall’autore “pericolosa come un veleno”, per scoprire echi e similitudini con il discorso ripetitivo, fatto di ossessioni concettuali e luoghi comuni adottato dai nuovi populisti.

George Orwell mentre scrive

George Orwell

A poca distanza dai fatti di Parigi, dove alcuni militanti dei Gilets Jaunes hanno aggredito il filosofo Alain Finkielkraut, la distopia di Papi assume un’aura decisamente più sinistra e leggere autori che fanno della complessità un elemento della propria poetica, come Antonio Moresco, Giuseppe Genna, Michele Mari, Davide Orecchio non basta a fugare il senso di una imminente presa del Palazzo d’Inverno.

Nel frattempo, sembra essere arrivato il giorno in cui un robot è riuscito a equiparare la scrittura di un essere umano. GPT2, un sistema rivoluzionario creato a San Francisco, non solo è in grado di comporre articoli con lo stile di un giornalista a scelta, ma ha scritto anche un romanzo “alla maniera” di George Orwell, partendo da una frase campione prelevata da 1984. La società no-profit OpenAI che sovrintende al progetto (dietro la quale si muove Elon Musk) e che si occupa di sviluppare sistemi di intelligenza artificiale open source, ha deciso per ora di non divulgare la tecnologia impiegata nell’esperimento per evitare delle “pericolose manipolazioni”. Tra l’incudine del web e il martello dell’intelligenza artificiale, per chi scrive è giunta l’ora di fare i conti con una transizione che cambierà definitivamente il panorama della scrittura e della cultura. Estote parati.

 

TAG: classe media, digitale, giornali, giornalismo, leggere, Lettura, libri, lingua, linguaggio, quotidiani, scrittura
CAT: Media, società

Un commento

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  1. massimo-crispi 5 anni fa

    A proposito degli svarioni fuori controllo, devo dire che anche sulla carta stampata non se ne sono fatti mancare. In tempi non così sospetti, prima del 2000, credo nel 1998, mi accadde di leggere un trafiletto su La Sicilia, giornale catanese, che annunciava il galà operistico d’arie di eroine pucciniane, trasmesso in tv con grande risalto da Lecce, nel periodo della direzione artistica di Katia Ricciarelli, coi più bei nomi femminili della lirica dell’epoca. E mi trovavo anche a Militello in Val di Catania, luogo d’origine del Pippo nazionale e dove si svolsero le nozze regali con la Katia. Quindi una sorta di inatteso legame quantistico colla medesima. In un bar, sgranocchiando un ottimo dolce alla mandorla con cappuccino sublime, lessi il capolavoro.
    L’ineffabile cronista scrisse uno in fila all’altro i titoli delle arie:
    Un bel dì ci vedremo (anziché “Un bel dì vedremo”);
    Mi chiamo Mimì (anziché “Mi chiamano Mimì”);
    O mio bambino caro (anziché “O mio babbino caro”);
    In dieci righe, concentratissimo.
    Quindi, in buona sostanza, un revisore consapevole sembra che non esistesse sempre neanche nei tempi d’oro della carta stampata.
    Oppure, se preferissimo vedere il bicchiere mezzo pieno, un atto futurista da parte di un articolista che, agendo semanticamente sui testi vetusti delle opere liriche, volle creare nuove arie con nuovi personaggi per novelle eroine…

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