Addio Shimon Peres, pragmatico sognatore

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29 Settembre 2016

L’immagine di Shimon Peres confezionata dagli schematici dispacci mediorientali della nostra stampa è in buona sostanza quella del negoziatore di Oslo e del premio Nobel per la pace. Gli odiatori seriali di Israele, dal canto loro, in queste ore stanno utilizzando la locuzione “criminale di guerra”. Per quanto mi riguarda, credo che con Peres, ultimo grande esponente della generazione dei padri dello Stato di Israele, scompaia un’intelligenza politica purissima di cui proprio ora il Medio Oriente avrebbe un disperato bisogno. Ma forse è stato lo  stesso Spirito della Storia ad aver fatto sì che agli attestati di stima della cosiddetta comunità internazionale non corrispondesse mai un potere sufficiente a cambiare i destini della regione.

Uomo dalle molte vite, Peres, e per una volta la formula non suona retorica. Da Vishneva, cittadina sul confine sempre mobile tra Polonia e Bielorussia, a Tel Aviv, da Szymon Perski, primo cugino della bellissima Lauren Bacall, a Shimon Peres (Peres è il nome ebraico del gipeto o “avvoltoio barbuto” che Peres vedeva volare sul Negev), dal bimbo che suonava il mandolino in un’orchestrina dello sthetl al braccio destro di Ben Gurion. “Ben Gurionista”, si definiva, e statalista (mamlachtit), prima ancora che socialista. Capace di grandi voli di immaginazione, eppure sempre controllato e calcolatore ai limiti del machiavellismo.

Una figura lontana dallo stereotipo del sabra, l’israeliano nativo, indurito dalle asprezze del deserto e della frontiera (“spinoso fuori, dolce dentro”, come un fico d’india). Peres, ha scritto il politologo Avishai Margalit, «non è mai divenuto un sabra. Per l’acconciatura, per i vestiti, per l’accento o per il comportamento, potrebbe essere un europeo colto. Per lui la quintessenza del sabra rimaneva Dayan». Di Moshe Dayan e di Yitzhak Rabin, suo eterno rivale, Peres rappresentava una sorta di contraltare, essendo stato uno tra i pochissimi capi laburisti a non aver seguito la carriera militare, un fatto che ha sempre pesato sulla sua immagine di leader di un paese assediato.

È tutto sommato veritiera la definizione di Peres quale “perdente di successo”, incapace di costruire rendite politiche, anticipatore e per questo poco in sintonia con la macchina elettorale. Nel 1977, dopo aver faticosamente raggiunto la leadership del partito, fu protagonista della prima sconfitta dei laburisti dalla fondazione dello Stato, quella che consegnò Israele al Likud. Fu uno degli artefici della deterrenza nucleare di Israele – la quale, piaccia o no, è servita a far desistere alcuni leader arabi dai loro propositi sterminazionisti – ma non può rivendicarlo, dal momento che nel discorso pubblico israeliano non è lecito toccare l’argomento.

Come primo ministro “turnante” assieme a Shamir, dall’84 all’86, in uno dei tanti governi di unità nazionale seguiti ad altrettante elezioni “non vinte” dai laburisti (un piccolo promemoria per i proporzionalisti…) riuscì a riportare l’inflazione dal 440%, risultato della disastrosa guerra in Libano, al 20%, ma l’elettorato non sembrò accorgersi nemmeno di questo. È proprio dalla guerra in Libano che Peres inizia a essere identificato come “colomba”, dopo essere stato “falco” nei primi trent’anni dall’indipendenza, quando l’esistenza stessa dello Stato era seriamente minacciata – e quando anche gli insediamenti al di fuori della linea verde facevano parte di una strategia di difesa complessiva.

Di fatto, la dicotomia falchi-colombe, come tutte le semplificazioni giornalistiche, mal si adatta alle personalità politiche complesse. Peres non fu falco né colomba (né, a dispetto del nome, avvoltoio), ma piuttosto un politico in grado di tenere assieme capacità visionaria, senso di giustizia e pragmatismo, adattando la propria visione alla fase storica. Dai primi anni ’80 avverte la necessità – e soprattutto la possibilità – del compromesso con i Palestinesi. Dopo il Nobel seguito agli accordi di Oslo, fonda il Center for Peace, contenitore della sua visione di un Medio Oriente prospero e pacificato.

Nel fatidico 2005 del ritiro da Gaza, arriva a lasciare dopo sessant’anni il partito laburista per Kadima, la formazione centrista fondata da Sharon. Una scelta non facile compiuta ancora una volta guardando al futuro non prossimo. Dieci anni dopo, quelle speranze sembrano infrante e soltanto la carneficina siriana sembra avere in parte distolto la sproporzionata attenzione occidentale da quel piccolo paese che è Israele e dalle sue contraddizioni. A noi che osserviamo da una certa rassicurante distanza, la pace in quelle terre sembra essere tornata un miraggio, un sogno. Ed è proprio in momenti come questo che dobbiamo ricordare le parole di Peres: «Sento di aver guadagnato il diritto a sognare».

TAG: ariel sharon, Israele, medio oriente, moshe dayan, Palestina, shimon peres, sionismo, Yitzhak Rabin, yitzhak shamir
CAT: Medio Oriente

Un commento

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  1. levimolca 7 anni fa

    Facciamo TRI boom TRI volu ZION : GALASSIA RADICALE sarà sempre + corposa e – nebulosa ! Cari amici , Barry Chamish Giornalista segugio ISRAEL
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