Il fossato tra Milano e il resto d’Italia di cui ha parlato il Ministro Provenzano, riaprendo un dibattito cruciale per il centrosinistra nei prossimi anni, si deve colmare ma riconoscerne l’esistenza è un primo passo per poter superare la dicotomia dello sviluppo tra le grandi città ed i piccoli centri.
In seguito alla dichiarazione del Ministro, Viesti ha rincarato la dose, con ragionamenti che ritengo del tutto sbagliati, sostenendo infatti che lo sviluppo di Milano derivi da una distrazione di risorse e attenzioni che andrebbero riservate al resto d’Italia e citando a titolo di esempio l’alta velocità e Human Technopole (l’eredità fisica di Expo).
Anche l’autorevole TheGuardian ha affrontato il tema in un articolo dove affronta lo stesso argomento.
Andiamo con ordine rispetto ai rilievi che vengono posti: Milano “ruba” sviluppo ai territori circostanti? In alcun modo no, nel senso che le fabbriche e i capannoni che hanno garantito crescita a basso capitale investito in tante realtà settentrionali non sono attratte dalla città, ma sono superate da un modello di sviluppo che premia la rapidità di connessione economica (e quindi sociale). Rispetto agli investimenti in capitale privato non è affatto vero che Milano sottrae al territorio circostante contenuti replicabili altrove, non si sono spostati i capannoni dalla provincia alla città ma il terziario avanzato si è affermato come traino economico senza eguali.
Si tratta di un fenomeno difficilmente arrestabile, l’80% degli europei vivrà in grandi agglomerati urbani nel 2050 e questo riguarda anche l’Italia. Il motivo è che le connessioni economiche, fisiche e sociali nelle grandi città portano alla costruzione di meta distretti, spesso di natura digitale, sempre più competitivi.
Anche se ci rivolgiamo ad una valutazione degli investimenti pubblici (alta veocità e simili) la valutazione non cambia di molto. Non vi è dubbio che gli investimenti sono ineguali in Italia ma è altresì vero che questo accade perché la capacità progettuale e di effettiva realizzazione degli investimenti è efficace. L’Italia soffre un basso (ed in decrescita, esclusa la attuale legge di stabilità) saggio di investimenti in relazione al prodotto interno lordo e la difficoltà di spesa di quanto preventivato in molte Regioni italiane è uno dei mali che affligge il nostro Paese e genera diseguaglianze.
Ma non c’è solo questo: oggi Milano e la sua città metropolitana sono in competizione con le principali aree produttive globali. La capacità attrattiva di investimenti esteri e di risorse umane qualificate va di pari passi con gli investimenti privati e pubblici. Se l’Italia non sostenesse adeguatamente gli sforzi di Milano di competizione internazionale il risultato sarebbe che le risorse oggi attratte da Milano andrebbero all’estero, con un complessivo impoverimento del Paese. Quindi con un risultato di fatto di maggiori diseguaglianze e fratture interne.
Ci sono dei fattori che io credo vadano analizzati per comprendere il perché di questa situazione (e dunque capire quali contromisure attuare).
In primo luogo Milano si è svegliata dal torpore di Tangentopoli con classi dirigenti che hanno e stanno progettando lo sviluppo della città con grande trasparenza e visione. La trasformazione degli scali ferroviari e le pesanti penalizzazioni per i privati che lasciano edifici abbandonati senza risanamento porterà ancora nuove risorse e forza nel Paese. Di fronte all’arrendevolezza agli interessi particolari si è affermato uno schema di sviluppo concentrato sulla sua sostenibilità ambientale ed economica.
Milano non ha abdicato al ruolo di indirizzare l’economia e gli investimenti privati, anche tramite il ruolo di partecipate pubbliche che non sono state dismesse, la città è socio di maggioranza relativa di Sea, ossia controlla due aeroporti strategici in Europa, ha una società di ingegneria solida che ha acquisito il controllo dell’edilizia popolare di proprietà del Comune sottraendolo alla Regione, controlla con Brescia una società leader di energia e gas, controlla una rara società efficiente nel trasporto pubblico locale, ha una piccola partecipazione in una società del servizio idrico integrato (Cap Holding) nata dalla fusione delle realtà locali dell’area metropolitana che è considerata il modello italiano di gestione efficiente delle acque in house. Insomma, a differenza di quanto fatto dallo Stato centrale dagli anni 90 ad oggi ha mantenuto e rilanciato le proprie partecipate e creato le condizioni di sviluppo e regolazione del mercato, oltre ad aver reso l’istituzione civica un partner credibile per investitori esteri e per accogliere e realizzare investimenti nazionali. Milano attrae ma rende, anche con gli investimenti caparbiamente protetti. Quando si è discusso di fare le nuove linee di metropolitana che si stanno realizzando in molti erano contrari. Abbiamo caparbiamente tenuto il punto e oggi M4 (la linea che collegherà Linate con San Babila in meno di un quarto d’ora) ha predisposto una commessa di 500 milioni di euro per lo stabilimento di Reggio Calabria rilevato da Hitaci. Quali altre realtà in Italia sono in grado di rendere sostenibili occasioni di sviluppo così importanti per territori produttivi diversi?
Il costo politico di scelte come questa ultima è presto detto: mentre la Regione della Lega di Salvini e Fontana arranca nel trovale soluzioni ad un trasporto ferroviario e infrastrutture ferme da anni, il Sindaco Sala si è presentato con lettere e video ai cittadini chiedendogli, nell’epoca degli algoritmi populisti, di sostenere l’aumento del biglietto dei mezzi pubblici. In quale altra realtà italiana sarebbe possibile rompere l’immobilismo e spiegare il senso ad una città di aumentare i costi del trasporto (già aumentati pochi anni fa) per investire ulteriormente sulla mobilità sostenibile?
L’Italia è troppo spesso caratterizzata da inefficienza nello spendere i soldi resi disponibili, blocco delle opere, svendita o gestione bizzarra delle partecipate pubbliche. Ora, possiamo chiedere ai cittadini di pagare, oltre alle tasse previste, anche la tassa sull’inefficienza amministrativa? Possiamo chiedere a chi ha leve di sviluppo e capacità di investimento di bloccare la realizzazione di opere laddove si riescono a fare perchè altrove ci sono difficoltà nel realizzarle? Io credo di no. L’analisi di Viesti è fortemente assolutoria rispetto a responsabilità gravissime di classi dirigenti contro le quali ci si deve ribellare. Non solo, penso che l’aspettativa (diffusa) che Roma sia un buon e giusto redistributore di risorse nel territorio è destinata ad essere disattesa come sempre avvenuto. Giusto obbligare lo Stato a distribuire le risorse in parti uguali tra Nord, Centro e Sud, ma altrettanto giusto responsabilizzare le classi dirigenti locali a utilizzare in modo corretto le risorse e penalizzare comportamenti non consoni. Per ribaltare il pensiero di Viesti, è davvero giusto limitare la capacità di spesa di un territorio perché le classe dirigenti di un altro territorio non sono in grado di amministrare le proprie risorse?
Milano, dunque, non solo non distrae risorse private e pubbliche ad alcun territorio ma anzi la maglietta dell’Italia nel competere con analoghe realtà produttive di altri Paesi. Ma quindi, in ultima analisi, siamo destinati ad una desertificazione del Paese e ad una continua crescita di un’unica città? Ovviamente no, affrontare questo significa rilanciare la sinistra globale nel mondo (come ho detto nel citato articolo di @TheGuardian) ma le armi a disposizione per evitare questo scenario non passano dal mettere il freno a Milano o dal denunciarne la crescita.
Prima di tutto ci sono gli investimenti e una rete di servizi capace di diffondere il progresso. Il cosidetto contado un tempo era il territorio compreso in un’ora di viaggio in carrozza trainata da cavalli partendo dal centro della città.
Oggi quello stesso territorio, usando i treni al posto delle carrozze, avrebbe una forma molto strana: un cerchio abbastanza perfetto per i territori della provincia, con punte molto distanti se colleghiamo le città in un’ora di alta velocità. Se le linee di trasporto fossero efficienti anche per i pendolari (e su questo Regione Lombardia ha colpe clamorose) il fossato intorno a Milano sarebbe fortemente colmato. Ovviamente non è solo una questione di trasporti, ma anche di connessioni, di sviluppo economico e urbanistico pensato e coerente alle vocazioni territoriali.
Un secondo aspetto di lavoro è la responsabilizzazione delle istituzioni e un loro riordino. Anche Milano come Comune è troppo piccolo per affrontare con serietà le risposte ai bisogni: serve ridisegnare gli enti locali o almeno consentire la partenza di attività di cooperazione rafforzata che responsabilizzino le istituzioni e creino autorità di regolazione che rispondano ai bisogni della popolazione. Roma non può riequilibrare il nord e il sud ma può incoraggiare processi di acquisizione di autonomie al nord come al sud che sappiano con coraggio innescare specializzazioni e capacità progettuale e di spesa.
La terza leva per colmare il fossato è qualificare il ruolo della mano pubblica in economia. Le partecipate sono un tesoro prezioso che spesso in Italia si trasforma in un incubo ricorrente degli amministratori. Eppure il ruolo dell’investimento pubblico nella società è fondamentale per costruire relazioni di fiducia verso le istituzioni e creare condizioni di sviluppo. Un radicale ripensamento di cosa sono le partecipate nel nostro Paese e che ruolo devono svolgere è la chiave per poter innescare sviluppo altrove.
Non credo che i fossati si colmino stanziando soldi, ma solo aumentando la capacità di spesa, responsabilizzando le classi dirigenti e indirizzando secondo una visione le risorse. A Provenzano va il merito di aver riaperto il confronto che ha senso se ci porta ad un passo avanti, coniugando la competizione tra le aree urbane sulla frontiera dell’innovazione con una reale cooperazione interna che consenta di spiegare l’utilità che Milano ha nell’attrarre risorse altrimenti patrimonio di altre capitali europee. Se si pensa invece che giovi rallentare Milano perché corre troppo si può rassicurare tutti che la burocrazia e le lungaggini della giustizia italiana giocano già un ruolo di freno sufficientemente efficace, non serve altro.
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(segue) 2. Responsabilità dei Meridionali. Ma la Questione meridionale non può essere affidata ai soli Meridionali, dimostratisi non all’altezza del compito, e deve tornare ad essere una grande questione nazionale che – come dice il professor Giannola – esige l’unione delle forze, nell’interesse di tutta l’Italia. Per il Sud, dato il sostanziale fallimento delle modalità con le quali si è affrontato finora la questione meridionale, occorre prefigurare soluzioni innovative, che riguardino in primo luogo: a) l’assunzione della Questione meridionale come questione strategica nazionale; b) una rivoluzione culturale; c) investimenti infrastrutturali adeguati; d) una Pubblica Amministrazione efficiente; e soprattutto e) una classe dirigente all’altezza del compito; se occorre, il commissariamento delle Regioni inadempienti; in alternativa, il gemellaggio (o adozione) di scopo Regione del Sud/Regione del Centro-Nord, che incentivi uno scambio virtuoso, le buone pratiche e le performance, ed elimini gli alibi. […] Richieste. Per cambiare verso, le richieste principali che avanzano gli investitori esteri sono: 1. avere un interlocutore unico; 2. una giustizia civile più efficiente. In definitiva, è un problema di Pubblica Amministrazione.
Quello che chiedono gli industriali italiani, per contro, è un efficiente sistema di infrastrutture, un contrasto efficace alla criminalità organizzata e una fiscalità di vantaggio che attiri nuovi investimenti.
Quasi nessuno pone l’accento sul problema culturale-antropologico, anche se non manca mai un riferimento a generici investimenti in capitale sociale. Neppure la SVIMEZ, finché alcuni anni fa non lo segnalai in una lunga lettera all’allora direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco Demarco, che inviai per conoscenza anche al presidente della SVIMEZ, Adriano Giannola, dopo aver assistito ad un loro dibattito sul Mezzogiorno. E poco si fa contro l’abbandono della scuola da parte dei ragazzi meridionali, che è un fenomeno grave che perdura ed è correlato al livello socio-economico delle famiglie. Esso nasce anche dalla carenza di strutture, a partire dagli asili nido, ed è scarsamente contrastato dallo Stato. […] Dotazioni infrastrutturali. Tutti gli studi attestano la relazione tra dotazione di infrastrutture e sviluppo economico. Da questo punto di vista, il divario tra Centro-Nord e Sud è elevatissimo.
Qui, nel sito di OPENCOESIONE viene monitorato dove vanno i soldi dati al Sud. Ma questi soldi sono solo una parte degli investimenti complessivi in Italia e, comparati con quelli spesi in 20 anni per la “coesione” della Germania Est, sono drammaticamente insufficienti. Proposte economico-finanziarie. Ecco alcune misure incisive volte a ridurre i divari Nord-Sud: a) analogamente a quanto è stato fatto per la Germania Est, destinare al Mezzogiorno un ammontare di risorse straordinarie pari ad almeno 50 mld all’anno per 20 anni, affidandone l’amministrazione o il controllo (per parare qualunque critica sulla cattiva qualità della classe dirigente meridionale, sulla quale concordo) ad un Comitato formato dai presidenti delle Regioni del Nord; b) applicare rigorosamente la norma che regola la distribuzione dei fondi per gli investimenti tra Nord, Centro e Sud e ripristinare l’obbligo della riserva (congrua ed effettiva) degli investimenti per il Mezzogiorno; e c) restituire al Sud l’ammontare complessivo degli investimenti di spettanza del Sud stornati al Nord (vedi in particolare durante l’ultimo governo Berlusconi-Bossi-Tremonti, 2008-2011). (continua)