Il giuramento a Palazzo Diotti

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10 Aprile 2024

Il giuramento a Palazzo Diotti

Ovvero di quando ho cominciato a capire come funziona il mondo. (Non si tratta di racconto, ma di Erlebnis, “momento di vita”. Per i racconti ci vuole la mano di Maupassant, che io non ho).

Il mio ingresso nella vita adulta avvenne a ventitré anni compiuti col primo impiego stabile a Milano. Ora, non sto qui a ripercorrere le tappe precedenti della mia esistenza perché cadrei nel lirismo patetico del “romanzo del giovane povero” cui spesso ho indulto e che in chat private mi è stato rimproverato da chi ha avuto, diciamo così, un processo di socializzazione non meno aspro del mio. Ed è così in fondo: non appena mostri una ferita c’è chi ne esibisce più di San Rocco. E sì, lo so, la vita resta per tutti un ospedale dove inutilmente tentiamo di cambiare letto e la bua è equamente distribuita nel mondo. E tutti vogliamo mettere in mostra la nostra bua, e scriviamo libri e poesie e canzoni e saggi grossi così, per la bua, la nostra bua. O apriamo pagine web, per la bua nostra di vivere, per il fatto inaudito di essere stati scagliati giù nell’esistenza senza che nessuno ci abbia chiesto il permesso.

Però, che tutto il mondo entri in te attraverso lo spiraglio del tuo io, ed è solo attraverso il tuo io che il mondo cominci a significare qualcosa, è un dato di fatto. È il nostro patetico idealismo: stati-di-cose percepiti attraverso il nostro occhio interno. Nulla più. Per intanto, giunto a quella età di tarda adolescenza, ultraventenne, io non avevo capito nulla del mondo, il mondo reale, fenomenico, quello trafficato nelle esistenze attorno a me. Avevo lavorato e studiato come tanti, certo, ma mi trovavo in un vicolo cieco nei miei vent’anni, un momento di particolare afflizione che non amo ricordare. “Avevo vent’anni: non consentirò a nessuno di dire che è l’età più bella della vita. Tutto minaccia di rovina un giovane: l’amore, le idee, la perdita della propria famiglia, l’ingresso fra gli adulti” ( scriveva Paul Nizan in Aden Arabia e continuava) “È duro apprendere la propria parte nel mondo”.

Così ero. Affranto dal bisogno più estremo, senza denaro con cui sostentarmi nel necessario, non parliamo nel superfluo, avvertivo sulla mia pelle il motto realista, poco caritatevole ma crudelmente vero, del porporato di Santa Romana Chiesa card. Siri di Genova: homo sine pecunia est mortis imago. E adesso avevo un impiego. Un flusso corrente di denaro. Piccolo ma tutto mio. Entravo nel mondo. Ed ero rincuorato. Ma come funzionava questo mondo?

Fino a quel momento, senza entrate, io ero ancora un po’ una immagine della morte. Biondino, magrolino, di minuta costituzione, mi si contavano quasi le costole del busto, e avevo un’aria non florida di fanciullo sciupato, anche perché, come accade quasi sempre in alcuni soggetti non assistiti dalla possanza corporea o scarsamente nutriti, avevo cominciato, per compensare, a condurre tutta l’adolescenza e la prima giovinezza con la testa ficcata in una sorta di ascetico idealismo. Ancora idealismo, signori! Non la religione, dalla quale mi ero staccato ben presto per reazione a una infanzia passata sotto la sferza di suore sadiche e preti infelici e repressi, e alcuni anche maneschi, ma la filosofia e l’ideologia politica da un lato e la letteratura dall’altro, e in quel torno di tempo specialmente la poesia. Ecco, la poesia: una produzione dello spirito che oggi guardo con tale tasso di diffidenza, sospetto e urticante ironia che quando qualcuno si presenta come poeta e non è palesemente Baudelaire, Montale o Gozzano, faccio un balzo all’indietro e tocco immaginari cornetti rossi in tasca. Uh! Un poeta! Lui? Ma per carità, ma mi faccia il piacere! E poi ho il sospetto che dietro un dolente poeta si nasconda in verità un violento che sublima, uno che, parafrasando Musil che lo diceva per i filosofi, non avendo a disposizione un esercito si impadronisce del mondo chiudendolo in un sistema il filosofo, e in un verso il poeta. E poi, andiamo, la poesia in sé, come componimento intenzionale, mi sembrava una cosa defunta come il Teatro di rivista con Macario e le donnine sgambettanti con le calze nere a rete, o anche il teatro di prosa di Giulio Bosetti e Turi Ferro.

Eppure, accidenti a me, in quegli anni idealistici passavo da un testo di Gramsci a uno di Hegel o di Rosario Romeo e Walter Maturi, per impaesarmi nel mondo delle idee (e per dare gli esami all’Università certamente), ma nel privato leggevo oltre ai romanzi, febbrilmente poesie, la canaglia che ero! Ho fatto in quegli anni il pieno di Baudelaire, Mallarmè, Rimbaud, e Lautréamont ma anche la plaquette Morte segreta di Dario Bellezza col quale ero entrato in corrispondenza – ci sono le sue lettere lassù nella mia libreria domestica – e col quale ruppi perché ebbi l’ardire di scrivergli (nasceva il critico in me) che Letter da Sodoma e Invettive e licenze non mi erano piaciuti, ma lui, prima di chiudere mi esortò nell’ultima lettera a leggere prosa (adorava Anna Maria Ortese) perché “raffina il verso” diceva, e io non capivo cosa volesse dire, e conclusi con un’alzata di spalle pensandio fosse una di quelle niaiseries che dicono gli intellettuali fumati ai neofiti per apparire splendidi e memorabili.

Ma i poeti che prediligevo erano perlopiù francesi ovviamente, e chi altri esistono se non i francesi per un siciliano incolto e desideroso di acculturarsi ? Escluso Pirandello che era finito in Germania per aver insolentito un professore universitario, tutti gli scrittori siciliani idealmente, come nella realtà Sciascia, prendevano un vagone letto per Parigi. Ed io chiuso nel mio lampolet – il letto a scomparsa dei disagiati di borgata che aprivo la notte in soggiorno, mi abboffavo di versi francesi al chiarore di un abat-jour. Versi, specie quelli delle Fleurs du Mal, che avevo quasi imparato a memoria nel mio francese improbabile appreso al ginnasio dalla molle e sputazzante bocca, provvista di traballante dentiera, di Madame Caputò, versi che mi ripetevo nella mente, come le canzonette che canticchia, per farsi coraggio, chi attraversa e teme nel buio i pericoli della notte e le insidie della vita.

Con la poesia francese in testa sbarcai intontito alla stazione centrale di Milano alle ore 13:00 del 19 di luglio del 1978 con la “Freccia del Sud” – “freccia” per modo di dire solo se paragonata a un traino a quattro – treno partito dalla mia città natale alle 18:18 del giorno precedente 18 luglio, e approdato sotto le volte in ferro in stazione, annunciato da una voce stentorea, dopo 20 ore di canzoni di Mino Reitano sparate a palla dai miei compagni di viaggio saliti a Villa San Giovanniche per tutta la notte, spargendo l’odore saturante di non so quale formaggio pecorino tagliato e ingerito per tutta la tratta, accompagnato da maleodoranti litri di vino, avevano continuato a chiamarsi ad alta voce e a urlarsi “U capiscisti?”, “U capiscisti?”, e “Caru meu, caru meu” e a darci dentro con “Geeeente di Fiumaraaaa”…

In attesa di trovarmi un alloggio in città, andai per intanto a dormire a Carate Brianza a casa della madre della mia ragazza, rimasta insieme a lei al mare in Sicilia. Beate loro. Io avevo ancora addosso la nostalgia struggente dello Jonio profumato, della sabbia dorata della Plaja, dei tamburelli Zaccà sport, delle telline e della pasta al forno incasciata la domenica, del jukebox del lido Spampinato, stabilimento balneare tutto in legno profumato di resina nelle tavole del piancito e pittato nei pali di sostegno rossi e bianchi, da dove si irradiavano nell’aria le canzoni del disco per l’estate, ma anche quello spleen baudelairiano che mi aveva accompagnato tutte le estati degli anni passati: il lieto crescere della stagione balneare, l’infiammarsi a ferragosto, e infine il lento spegnersi, unitamente al prezzo decrescente delle angurie vendute lungo il viale Kennedy.

Durante il viaggio avevo tentato, calabresi non permettendo, di leggere La vita interiore di Moravia, novità di quell’anno e dono gradito con dedica di buon viaggio della mia ragazza: una storia di sesso e terrorismo, raccontata in seconda persona, attraverso una “tu” intervistata da una Voce, una finezza redazionale di Moravia a torto ritenuto uno scrittore convenzionale, col solito carico di erotismo che c’era sempre stato nella sua opera fin dai tempi degli Indifferenti ma che con Agostino e La noia aveva trovato immagini e vocabolario più espliciti e audaci, e che in quest’ultimo romanzo esplodeva fra le cosce di Desideria, la torbida protagonista. Sentivo che la mia vita subiva in quei giorni, con quel libro tra le mani, uno strattone.

Eccitato, smarrito, cacciavo allora, per distogliermi da quella morsa erotica, la testa nei versi di Baudelaire, Ô douleur! ô douleur! Le Temps mange la vie… e me ne tornava invece una risonanza interiore ancor più stordente e annichilente, quella che ti fa sentire tutta la tragicommedia del vivere distillata in essenza, e nel concreto quotidiano, solo com’ero, chiuso il libro di versi ed entrando in una stanza priva di persone, avvertivo sulla pelle tutta la solitudine delle cose mute dei soprammobili, e il tic-tac angosciante di un orologio a muro. Ero lontano da casa ancora una volta, come sempre era stato fin dalla più tenera età. Quella era la mia vita datami in sorte, lontana dagli affetti, dovevo ancora una volta provvedere a me stesso, mettere al mondo me stesso, essere mio padre, essere io il mio vero genitore. Era il mio destino che accettavo a ciglio asciutto.

Il giorno dopo 20 luglio varcavo il portone della Prefettura presidiato da poliziotti e militari in assetto di guerra (eravamo in pieno terrorismo, Moro era stato ammazzato due mesi prima). Entravo nel Palazzo Diotti da dove era uscito Mussolini prima di fuggire per Dongo, lo avevo visto nel film Mussolini ultimo atto di qualche anno prima (1974). Ricordo le pareti interne dell’edificio color ocra e il loggione retto dai pilastri di granito. Mi sorprese vedere a terra attraversando il cortile delle svastiche decorative sovraimposte nei pluviali in ferro.

Avevo superato un concorso per 41 posti di coadiutore nella carriera civile del Ministero dell’interno. Per la prova di dattilografia mi ero preparato sulla olivetti della sorella più piccola facendo ricorso al suo manuale per impostare correttamente le dita e battere senza guardare i tasti della macchina per scrivere. Riuscii a raggiungere un buon livello di destrezza manuale; mentre che c’ero, provai pure la stenografia metodo Stenital Mòsciaro. Non male. Fu uno di quei momenti che mi pentii di non aver fatto ragioneria rispetto al meno spendibile, per il mondo del lavoro, liceo classico, imboccato tra l’altro per puro caso (ho pudore a dire che c’è del pessimo romanzo disseminato nella mia vita, ma così è andata) perché non sapevo che esistessero altri istituti di istruzione di secondo grado, e ciò perché i preti di Firenze, dov’ero stato fino a quel momento, solevano ripetermi che dopo le medie sarei andato al ginnasio di Desenzano del Garda, e perciò al momento in cui ero rientrato a casa fregando i preti che mi avevano messo gli occhi addosso per i loro progetti, nessuno in famiglia – tutti analfabeti o quasi – avevano informazioni su quali istituti di istruzione superiore seguivano dopo le medie. Pertanto quando mia sorella maggiore Graziella, la facente funzione di mamma, che stravedeva per me perché sempre lontano dalla famiglia, mi chiese se volessi continuare gli studi – io che i primi tempi continuai per un po’ a dare del lei a mia madre, come se fosse una reverenda madre – risposi che sapevo che dopo c’era il ginnasio. Lì volevo andare. E liceo classico “Nicola Spedalieri” fu. Indubbiamente un colpo di fortuna del destino a mio favore.

Ero arrivato 265mo in graduatoria, ma era un sistema quello di prendere più persone dei vincitori effettivi (“attingere dalla graduatoria” era la locuzione corretta) per depistare forse la Corte dei Conti o chissà quale bislacca legge contabile. Consuetudine realista italiana, dove sempre lo spirito disattende la lettera, ma quest’ultima è venerata e rispettata formalmente come un omaggio che il vizio rende alla virtù: vedete i Vangeli, dai connazionali i testi più citati e i meno rispettati. E d’altronde littera enim occidit, spiritus vivificat, no?

Salto le procedure di assunzione. Mi dissero di raggiungere l’ufficio della Prima Divisione del dottor Wiemar, un lombardo di origine straniere. Ricordo solo che era una persona lenta e paciosa dagli occhiali quadrati e dai riflessi violacei. Per correggere forse questa sua possibile interpretazione suadente mi ricordò con voce impostata sui toni duri che ero in prova per sei mesi. Un brivido mi percorse lungo la schiena: non ero più all’addiaccio dei lavoretti precari, ma non ero ancora al sicuro dentro il fortilizio statale, eppure avevo in tasca la tessera verde degli sconti ferroviari e la mensa al quarto distretto di Polizia in via Poma. Ma non ero di ruolo. Dovevo ancora giurare.

Nei mesi che precedettero il giuramento avevo fatto nel bar interno la conoscenza di Marisa D. Lei, non so come, sapeva che ero di Catania come lei. Era una donna di mezza età ma ancora in breccia che lavorava al primo piano, quello nobile degli Uffici di Gabinetto a due passi del Sancta Santorum degli uffici del Prefetto. Mi prese in simpatia. Una volta tornando dal bar mi invitò ad entrare nel suo ufficio e qui giunti raccontò alla sua collega che le stava seduta di fronte, di avermi visto sulla 61 in via Borgogna che leggevo, tutto tranquillo, un libretto di poesie: Baudelaire. <<Un pazzo!>> aggiunse non so se compiaciuta o meno. Comunque con quei toni che io ho imparato a vedere tra i borghesi splendidi, tipico di chi considera eccentrico ogni comportamento fuori dai loro riti. E le si illuminava il viso. Le ero molto simpatico dopotutto. Ora, la sua collega era una splendida donna, si chiamava Anna Maria ed aveva un corpo esplosivo, un petto prosperoso e solido che premeva senza reggiseno sotto una camicia bianca da maschio. Aveva le lentiggini sul naso e degli occhi neri, luccicanti ed evidenziati dal mascara. Era di una sensualità prorompente, nella scala dell’erotismo a quel che mi pareva, appena un gradino sopra della volgarità. Anche perché rimarcava le labbra con un rossetto orlato da matita blu, una cosa audace per quegli ambienti austeri e ufficiali. Un mio collega, già di ruolo, mi avvisò che era un’ausiliaria, un gradino sotto di noi impiegati d’ordine, e che era l’amante del capo di Gabinetto dottor Gherro. E di stare sulle mie. Lui, Calogero, Lillo, di Caltanissetta era un marxista severo e faceva la sua personale lotta di classe con quelli del Gabinetto, gente da tenere a distanza per lui. Anche perché, mi aveva svelato che quei ragazzi con la tolfa e i capelli lunghi e le barbe incolte che si aggiravano nel piano nobile e andavano a mensa con noi al Quarto Distretto di Polizia di via Poma, erano in verità degli infiltrati della Pula nei Movimenti. Ed era vero, era stato Kossiga a inventarsi una cosa del genere, lessi anni dopo. Mi mise sull’avviso a modo suo, e si vedeva che non gradiva quella mia frequentazione. Io, da sempre ostile alle logiche paranoiche dei gruppettari e lusingato dalle attenzioni delle due donne, ritenevo del tutto innocente scambiare qualche battuta con loro, sentire i loro profumi, il tintinnio dei braccialetti d’oro, odorare la loro femminilità, specie quella di Anna Maria che era sempre sorridente e leggera e mi dava ogni tanto qualche buffetto. Anche se capivo che di qualche privilegio ingiusto le due donne godevano visto che pur essendo impiegate ausiliarie e non d’ordine, avevano scrivanie di mogano, moquette sotto i piedi, e passavano leggiadre carte di nulla rilevanza, mentre noi appena assunti eravamo stati impiegati in lavori da soma a spostare centinaia di faldoni dall’Ufficio Patenti, saturo di incartamenti e in stato di caos, negli archivi sotterranei in cantina. Bestie da soma. Capivo insomma che sotto e al di là degli organigammi formali regolati dalle norme, dal mansionario e dai gradi, agivano gli organigrammi informali regolati dalle logiche della vita:  il puro potere e dallo scambio energetico col potere ufficiale che dà il sesso. Fu una prima acquisizione della vita adulta. Che si manifestò in maniera lampante e teatrale allorché arrivò il giorno del giuramento.

Chiamato dal commesso, vestito più degnamente che mi fosse possibile coi denari che i magri stipendi mi consentivano, ossia con un cardigan grigio chiaro con due toppe sbarazzine colorate, giallo-rosse, ai gomiti, nuovo, capo Benetton, che campeggiava in quegli anni in un manifesto ruffiano di Olivero Toscani, acquistato da poco in Paolo Sarpi. Sotto il cardigan una camicia celeste classica e poi pantaloni beige e scarpe nuove di cuoio testa di moro. Un figurino a mio avviso e per i miei standard. Il giuramento era fissato alle 12:00 dal Prefetto un nobile siciliano discendente dagli Amari, tra i quali il celebre Michele della Storia dei musulmani in Sicilia.

Alle dieci del mattino il commesso Brusati mi condusse nell’Ufficio del Dottor Gherro che evidentemente aveva l’incarico di supervisore della cerimonia. Era un uomo grigio e bigio, di media statura, quarantenne, i capelli già imbiancati, il baffo folto squadrato, gli occhi piccoli e neri, pungenti come spilli. Non appena mi vide scattò in una mossa della mano col pollice e indice a occhiello e le altre dita dritte minacciose stirate in avanti: <<Lei, non vuole intenderla che in ufficio si viene in giacca? Vada subito e provveda, e si faccia vedere qui alle dodici se non vuole perdere il posto>>. Col cuore in gola raggiunsi l’ufficio di Marisa e Anna Maria e chiesi loro dove comprare una giacca nei paraggi. Mi scusai impaurito: <<Abbiamo per giorni scaricato faldoni. Come si fa a venire in giacca?>>, dissi. Anna Maria mi si avvicinò e mi soffiò in viso, vicina: <<Quello sc-costumato non sa chille ca ddice>>. E qui introiettai un’altra regola del mondo: il sesso è un potere più forte dei pennacchi e forse del denaro. <<Vieni con me, andiamo alla Rinascente>>.

Uscimmo dal Palazzo. I carabinieri in alta uniforme non appena varcammo il portone scattarono sui tacchi sbirciando dall’alto la scollatura prorompente di Anna Maria che ridacchiò prendendomi sottobraccio e facendomi sentire la polpa di un seno. <<Ma tu cco ‘e ppoesie vuoi vivere a Milano? Sc-vegliati guagliò>>. Su suo suggerimento comprai una giacca di velluto a coste piccole che drappeggiai davanti a lei, che mi sistemò i bottoni per vedere come cadeva. Di ritorno a Palazzo Diotti lei mi condusse nel suo ufficio e con Marisa che ridacchiava leggermente aprì un’anta del suo armadio dove pendevano da una striscia di legno un buon numero di cravatte. Ne prelevò alcune e <<Questa>> disse. Si avvicinò a me e cominciò ad annodarmi la cravata al collo non senza farmi sentire senza alcun pudore, anzi con una punta di sadismo, entrambi i seni polposi sul petto nel momento in cui mi regolò la cravatta dietro il colletto. Ebbi una illuminazione: era Desideria della Vita interiore di Moravia!

Cinque minuti alle dodici mi recai dal Dottor Gherro che realizzata la mutata situazione con un colpo d’occhio non mi guardò più di tanto. Mi scortò dal Prefetto. Un poliziotto in alta uniforme ci aprì le porte massicce e imbottite di sughero all’interno e ci introdusse nell’Ufficio-Reggia del Prefetto. Ricordo solo una sinestesia di tessuti cremisi damascati alle pareti, stucchi dorati, il Prefetto altissimo coi capelli e i baffi bianchi altero ieratico come un Principe Gattopardo che forse tale era. E io che dissi emozionato Lo giuro come sotto le armi a Palmanova invece di un semplice e firmai il registro con la mano tremante. Assunto in pianta stabile.

Di ritorno dalle donne per riconsegnare la cravatta realizzai con una punta di tristezza che ero solo al mondo, che io solo come sempre in tutti gli anni dell’infanzia dovevo provvedere a me stesso con la mie sole forze scavandomi nella grande città e nel frastuono del mondo grande e terribile il


fine ed il mezzo per trovarvi una nicchia di salvezza.
Marisa non c’era. Anna Maria mi accolse  con un sorriso sincero. Prelevò la cravatta che le porgevo. Vidi le sue lentiggini e il suo musetto da gatta che si avvicinavano al mio volto. Sì, era Desideria, stessa sfrontatezza e spontaneità. Mi depose un bacio sulla guancia, facendomi sentire con nessuna malizia come uno scherzo affettuoso le sue tette addosso, e mi chiese sorridendo: << Il dottor Gherro non ha riconosciuto la sua cravatta?>>. Ebbi un brivido per il guaio in cui mi aveva messo, ma sùbito realizzai che lei dominava il suo uomo, e che perciò nulla poteva accadermi. Ero sotto la protezione della forza sessuale femminile che tanto poteva in quel piccolo mondo di funzionari bigi e grigi, e forse anche in un buon pezzo di mondo circostante.
In quegli anni cominciò il mio lento distacco dalla poesia. Entravo nella prosa del mondo.

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CAT: Milano

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