Milano, così diversa dall’Italia

21 Giugno 2016

Iniziamo oggi una breve rassegna, giornaliera, di quanto è accaduto nelle amministrative delle scorse settimane, cominciando dalle città più importanti (Milano prima di tutte, ma per ragioni del cuore), per arrivare infine al quadro complessivo di quanto è mutato – se è mutato – su quella parte del territorio italiano che si è recato alle urne. Si tratta ovviamente di elezioni per il rinnovo dei sindaci, dunque non facilmente rapportabili al voto politico, ma che possono darci un’idea non superficiale dei nuovi rapporti di forza che si stanno creando, anche in un’ottica più complessiva, avendo in mente cosa potrebbe accadere nelle consultazioni nazionali. Che, con molta probabilità, avranno luogo nel corso del prossimo anno.

Milano, dunque. Il capoluogo lombardo, più passa il tempo, e più tende a discostarsi da quella città-simbolo ipotizzata da Gad Lerner molti anni fa (“Milano, Italia”), come se appunto studiando quanto accadeva nella Milano di allora si potesse comprendere gli sviluppi futuri della politica italiana. Oggi Milano pare essere diventata l’esatto contrario. Né avanguardia del resto d’Italia né vicina a quanto succede altrove. Una realtà a se stante, ma con molte cose interessanti, che potrebbero (e dovrebbero) venir imitate dalle altre realtà locali.

Prima di tutto (ma non è ovviamente questa la sua particolarità), c’è da sottolineare la forte trasformazione che si è avuta nel corso degli ultimi vent’anni dal punto di vista delle scelte politiche dei milanesi. Nel 2001, lo scontro tra Albertini e Antoniazzi si chiuse con un perentorio 58 a 31 a favore del primo, ben 27 punti differenza. Certo, nell’area di centro-sinistra mancavano all’appello i verdi e Di Pietro, che si presentarono da soli. Ma anche sommando i loro voti, si arrivava a stento al 40%. Una distanza abissale che però, poco a poco, si è progressivamente ridotta.

Cinque anni dopo, dai circa 18 punti si era passati ai 5 di distacco tra Letizia Moratti e Ferrante; con Pisapia, al primo turno, l’area di centro-sinistra e quella di centro-destra erano divise soltanto da un punto ma, per la prima volta, era la sinistra a trovarsi in pole-position in vista del ballottaggio, che confermò il primo sindaco di sinistra della storia delle elezioni dirette. Oggi, quel vantaggio si è ancora accentuato: se sommiamo i voti di Sala a quelli di Rizzo (e Cappato), il centro-destra deve subire un distacco di almeno 5 punti, quantomeno al primo tempo della competizione. E al ballottaggio le cose sono rimaste più o meno simili, con la vittoria del candidato di centro-sinistra con un distacco maggiore rispetto al primo turno.

A Milano, il ruolo che ha giocato il Movimento 5 stelle, sia nel passato ma soprattutto in questa occasione, è stato di fatto del tutto secondario. Un elettorato pentastellato esiste, ovvio, ma non riesce ad incidere in maniera significativa nelle menti e nei cuori dei milanesi. E questa è davvero la prima peculiarità. Sia se vediamo nel voto M5s elementi di protesta, sia che ne vediamo elementi di proposta, a Milano nessuna di queste ottiche riesce ad attecchire, al contrario di quanto sta accadendo nel resto d’Italia. Per quale motivo? E’ possibile che la risposta più vicina alla realtà è che non ci siano grossi problemi nella gestione del potere meneghino.

Soprattutto dopo la vittoria di Pisapia, 5 anni fa, ma per certi versi forse anche prima, non si è assistito a quasi nessun scandalo, pochi intrallazzatori che gestivano la cosa pubblica per tornaconti privati. In secondo luogo, pare che le cose funzionino (quasi) indipendentemente dalla gestione politica della città, come se il sindaco contasse “meno” che in altri luoghi, e ci sia una unità di intenti di fondo, al di là del colore politico della giunta. Ovvio che questo conti, in alcuni indirizzi di fondo su temi cruciali, ma forse meno di quanto possa sembrare.

Altro elemento che caratterizza Milano, in particolare nelle ultime campagne elettorali, è la mancanza di livore nei confronti tra candidati (se si fa eccezione per la infelice uscita di Letizia Moratti), ed il dibattito si trasforma in una corretta competizione senza eccessi. Certo, questo non scalda i cuori, ma siamo così sicuri che i cuori debbano per forza essere scaldati? Ultimo e forse decisivo elemento è il tipo di motivazioni che accompagnano gli astensionisti. Gli elettori che non vanno alle urne non lo fanno perché, similmente alle democrazie nordiche, sanno che tutto sommato i sindaci che si alternano alla guida della città non potranno comportarsi in maniera troppo inadatta ai bisogni della città stessa. Quindi, se non sono troppo “tifosi” di una o l’altra parte politica, chi non va a votare lo fa sapendo di potersi fidare dei nuovi governanti. Visto anche che chi ci va, alla fine, non attribuisce mai troppi consensi alle parti più estreme, o più anti-sistema, o più contestatrici, da una parte o dall’altra dello schieramento. La sinistra rivoluzionaria non sfonda, e nemmeno la Lega, né come si è detto i 5 stelle.

Buona amministrazione, gestione sociale sufficientemente equilibrata, facilitazione dello sviluppo economico-finanziario e turistico. Certo, non tutto funziona, è ovvio. Ma i problemi che ha Milano non sono dello spessore con cui si manifestano nel resto del paese. E gli elettori si adeguano. Milano: l’inedito italiano.

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