Perché tante morti in Lombardia? Un’analisi quantitativa

6 Aprile 2020

Una delle mille domande angoscianti che ci stanno assillando in questo terribile 2020 è perché tante morti in Lombardia.

Naturalmente, la prima ovvia considerazione per cui la Lombardia, con oltre 10 milioni di abitanti, è la regione più popolosa d’Italia non dà alcuna giustificazione a questa terribile anomalia.

La Lombardia, infatti, a un mese circa dall’evidenza della tragedia (l’inizio nascosto è stato precedente) presenta valori di mortalità da coronavirus molto più elevati sia in rapporto alla popolazione (Fig. 1) sia in rapporto ai casi positivi (Fig. 2).

Fig. 1 Decessi per 100 mila abitanti al 24 marzo 2020

Fig. 2 Decessi su 100 positivi sintomatici al 24 marzo 2020

Quest’ultima percentuale rappresenta, allo stato delle conoscenze e dell’evoluzione della pandemia, una probabilità condizionata: la probabilità di morte avendo contratto il virus in forma sintomatica.

L’elevata incidenza lombarda, seguita da Liguria ed Emilia Romagna, è dunque non solo assoluta ma anche relativa, in rapporto a tutte le altre regioni del Centro-Nord.

Sulla base di queste evidenze, si è voluto verificare con un semplice modello di regressione e in via del tutto preliminare sulla base delle informazioni messe a disposizione, se la correlazione con quattro fattori significativi possa concorrere a spiegare il fenomeno.

Il primo fattore che sembra rilevante è la probabilità di contagio. Una sua proxy, per quanto grossolana, si può ricavare dalla densità della popolazione per km quadrato di superficie. La Lombardia, con 421 abitanti per kmq è l’area più densamente popolata d’Italia. Difficile pensare che questo non abbia influito sulla diffusione del contagio e sulla sua virulenza.

Un secondo fattore, legato all’incidenza degli anziani tra i deceduti, è l’incidenza degli anziani nella popolazione. Qualcuno è arrivato a sostenere, senza vergognarsene, che non bisogna preoccuparsi più di tanto di questo aspetto poiché (anche) sotto questo riguardo l’anomalia è l’Italia che, grazie al suo eccellente sistema sanitario, riesce a tenere in vita degnamente una fascia di popolazione che altrove non esisterebbe neppure.

Ho approssimato questo fattore, tra le varie possibilità (più o meno tutte equivalenti) con l’indice di dipendenza degli anziani (anziani su popolazione adulta).

Un terzo fattore è l’incidenza della popolazione femminile. Sembra emergere da informazioni “qualitative” che le donne stiano mostrando una capacità di resistenza e di resilienza maggiore degli uomini. Idem per i soggetti di recente immigrazione. Non disponendo di dati ufficiali al riguardo ho considerato la quota di popolazione femminile come proxy di questa componente.

Al riguardo, Liguria e Umbria hanno i valori (lievemente) più alti rispetto alla media nazionale.

Infine, in quest’analisi assolutamente preliminare, si è voluto prendere in considerazione il fattore “prevenzione” dato dalla capacità di individuare precocemente il virus. A questo scopo, il numero di tamponi sui casi positivi è un indicatore della dimensione e dell’efficienza del sistema di diagnosi precoce messo in atto nelle diverse regioni.

I risultati della regressione danno un fit significativo, soprattutto annullando per l’Emilia Romagna l’effetto della quota della popolazione femminile (Tav. 1 e Fig. 3).

Tav. 1 Risultati della regressione

 

Il rischio di contagio e la diagnosi precoce hanno gli effetti più importanti, rispettivamente positivo e negativo, sulla mortalità. La componente femminile riduce la mortalità del virus mentre, tenuto conto di questi effetti congiunti, la quota di anziani nella popolazione, pur correlata con la mortalità, non aggiunge capacità esplicativa.

Fig. 3 Decessi su sintomatici osservati e stimati

Considerazioni e prospettive

Le considerazioni che si possono trarre, sia pur provvisoriamente, sono abbastanza nette: da un lato, il distanziamento fisico è, al momento, l’unica strada sicura di riduzione degli effetti mortali della pandemia e dall’altro l’utilizzo dei tamponi, soprattutto per diagnosi precoci mirate, è quasi altrettanto importante. Gli scenari che a questo punto sembrano prospettarsi mi pare siano tre.

1. Nel primo, il distanziamento fisico viene rispettato rigorosamente e quindi funziona. Cessano i contagi e i malati (quasi tutti….) guariscono. Il virus smette di riprodursi e si estingue, almeno in Italia. Immaginando che i contagi finiscano oggi, si può dire che a maggio usciamo dall’incubo.

2. All’opposto, il distanziamento fallisce e il contagio continua. Prima o poi tutta la popolazione viene infettata. Si ammalano in tantissimi, guariscono in tanti. Il numero di morti raggiunge cifre apocalittiche. Il sistema sanitario si schianta sotto un peso immane. Mezzo milione di morti è forse una cifra ottimistica. Poiché forme di distanziamento continuano a sussistere, la crisi dura almeno un anno. Alla fine resiste chi è fisicamente predisposto e passerà alle generazioni successive il vaccino naturale che si porta dentro. Il ritorno a una qualche normalità richiederà anni e la società ne uscirà cambiata drammaticamente e definitivamente.

3. Nello scenario intermedio, si può immaginare che nell’arco di qualche mese venga trovato un medicinale o un qualche vaccino che abbia una certa efficacia a rendere meno letale il virus. Viene prodotto e distribuito in tutto il mondo (e si vedrà se c’è l’umanità o il denaro alla base della nostra società) e, con perdite più limitate, si domerà il flagello.

E’ chiaro che il primo scenario è quello meno distruttivo ed è, in fondo, a portata di mano, legato esclusivamente alla nostra volontà di singoli e di comunità. Non perseguirlo significa aprire la strada a una guerra epocale e cruenta tra morte e scienza come si è vista solo in certi film, non sempre a lieto fine.

TAG: COVID-19
CAT: Milano

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