Urbanistica e politica: scala locale, dialogo con i contesti e masterplan

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11 Dicembre 2020

Una delle cose che ho sempre cercato di insegnare agli studenti di architettura al Laboratorio  di Urbanistica è di fare i progetti a partire dal contesto nelle sue differenti dimensioni  – morfologiche, funzionali, sociali, economiche – e dalle sue esigenze –  sia quelle manifeste, sia quelle che emergono da un buon lavoro di lettura e interpretazione dei luoghi. È un mantra piuttosto scontato per alcuni ma che non mi pare mai abbastanza radicato nelle pratiche. Non è raro vedere progetti che sono l’esito di adesioni acritiche a modelli di intervento standardizzati e globalizzate o progetti autoreferenziali tutti pensati entro il perimetro del loro lotto: progetti incapaci di dialogare coi contesti urbani variamente definiti in cui si collocano, pur essendo magari di buona qualità architettonico-edilizia.

Tale “assenza di dialogo” è da imputare a forme di progettazione poco sensibili ai contesti, ma non solo. Spesso è un tema di (debole) regia pubblica che riguarda settori e competenze diverse, dall’urbanistica e pianificazione alle forme di verifica e controllo dell’edilizia privata. Il rischio aumenta quando poi si concentrano in una stessa area diversi interventi di trasformazione, ciascuno seguendo una sua logica interna senza un adeguato coordinamento generale. Al di là quindi della necessità di architetti capaci di progettare a partire dalle condizioni del contesto, interpretandone i bisogni, i nodi da affrontare, sul versante amministrativo, a mio avviso sono tre: 1. in che modo i progettisti possono avere a disposizione in via preliminare un quadro sufficientemente preciso e aggiornato delle  esigenze locali per assumerle come base per interpretare i contesti e poter costruire progetti inclusivi e dunque più efficaci?  2. Come si verifica (e chi lo fa) la capacità degli interventi di dare risposta anche alle esigenze dei contesti locali e non solo la rispondenza alle norme edilizie o urbanistiche? 3. In che modo si possono coordinare entro un quadro di indirizzi chiaro ma flessibile diversi interventi puntuali che possono insistere in un medesimo ambito urbano?

Quello che sostengo è che nel governo delle trasformazioni urbane si sente la mancanza di adeguate procedure, sedi e documenti in cui tale dialogo con i contesti locali in tutte le fasi del processo si riesca efficacemente a dare. Non è un problema di facile risoluzione, per tanti versi è strutturale, tuttavia credo valga la pena ragionarci.

Intanto la scala: locale, di quartiere, di ambito, a 15 minuti

Senza voler dare ricette io credo che un punto fondamentale sia tornare a praticare una scala “intermedia” di intervento che consenta di esercitare proprio quel dialogo con il contesto di cui in diverse situazioni si sente la mancanza. Una scala intermedia in termini dimensionali, procedurali e di contenuto.

In primo luogo, una scala “materialmente” intermedia,  tra la dimensione urbana e quella del singolo lotto. Ciò significa, per i progettisti, considerare l’influenza e gli impatti del/su un intorno urbano significativo rispetto al singolo lotto in cui operano (che evidentemente non po’ essere predefinito a priori); per l’amministrazione trovare le forme e i modi per indirizzare, controllare, valutare, in altri termini  governare le trasformazioni su base territoriale e non settoriale. Significa guardare ad ambiti entro cui si dispiegano pratiche e relazioni urbane che, pur essendo evidentemente connesse con il resto della città, sono in qualche modo significative e riconoscibili come sistemi e luoghi di dinamiche “interne”; sono ambiti che spesso coincidono con una “scala locale”, con i  quartieri, con i settori urbani. Rimettere la scala locale al centro del discorso per l’amministrazione pubblica significa dotarsi di documenti, soggetti e strutture capaci in primo luogo di conoscere e presidiare nel tempo le esigenze, i bisogni, e i modi di funzionare che emergono dal territorio.

Significa – dal mio personale osservatorio del Municipio 3 di Milano  – ad esempio, tornare ad occuparsi di Città Studi, del trasferimento di alcune facoltà scientifiche e della loro sostituzione funzionale con un piano strategico flessibile, come più volte richiesto, per coordinare gli interventi, per ragionare sulle implicazioni e sugli impatti, per costruire scenari.

Oppure, ad una scala più ampia, attrezzarsi per governare gli effetti delle trasformazioni puntuali proposte nelle aree di Lambrate-Ortica –Rubattino, dove insistono alcuni PII in attesa di ripartire dopo anni di stop, diverse aree dismesse oggetto dell’interesse di operatori immobiliari, lo Scalo Lambrate sede del bando Reinventing City, la Grande Funzione Urbana prevista dal PGT al Rubattino. Diversi interventi che devono trovare collocazione e senso entro un quadro programmatico e pianificatorio in grado di tenere insieme i differenti scenari di sviluppo e di governarne e valutarne gli impatti soprattutto in termini di mobilità e servizi. Ma significa anche, per interventi più limitati ( come il Municipio ha fatto per le torri residenziali a Crescenzago ad esempio), richiedere che certi interventi edilizi siano sempre accompagnati da studi sugli impatti questi avranno sul quartiere in termini di mobilità e di domanda di servizi. Si parla molto della “città a 15 minuti”. Non potrei essere più d’accordo a immaginare uno sviluppo urbano che ragiona sull’urbano a partire da parti di città “discrete” capaci di rispondere alle esigenze quotidiane  dei suoi abitanti. Ma a maggior ragione, per poterlo fare, bisogna rimettere al centro  la scala locale adottando un approccio territoriale e non settoriale.

Territoriale vs settoriale, vecchia questione

Scala intermedia per me significa anche intermedio in termini di contenuto del progetto, “tra spazio e società” mi verrebbe da dire, scomodando Giancarlo De Carlo. Tradotto in termini pratici e progettuali, significa cercare di tenere insieme la dimensione del progetto fisico e materiale e quello delle politiche di supporto. Gli esempi non mancano. Dagli esperimenti a inizio anni 2000 con i Contratti di Quartiere a molte sperimentazioni nel campo dell’housing sociale in cui il progetto delle residenze è accompagnato da azioni volte a costruire coesione sociale. Queste dovrebbero diventare la norma, essere estese a progetti più ampi, radicarsi nelle prassi amministrative pubbliche e superare la logica dell’hardware e software che, se non sono coordinati e inseriti entro un unico progetto, rischiano di replicare quella settorialità degli interventi e degli approcci che mostra costantemente i suoi limiti.

Sullo strumento: masterplan questo sconosciuto

Scala intermedia in termini procedurali, si traduce per me nella necessità di strumenti che stiano “tra progetto (strettamente inteso) e piano urbanistico”,  anche questa annosa questione mai del tutto risolta.  Significa per il piano avere la capacità in alcune situazioni di dare indicazioni più stringenti alle proposte di trasformazione (gli urbanisti conoscono bene il dibattito sulle “norme morfologiche”, i “progetti norma” e così via, ma resta un campo su cui occorre tornare), per il progetto (architettonico o comunque di dettaglio) di riuscire a rispondere con più efficacia alle strategie di scala urbana del piano.

Questa posizione intermedia tra le indicazioni di piano (norme urbanistiche, strategie di scala urbana etc) e le prefigurazioni spaziali del progetto di intervento, come pure la scala  intermedia tra lotto e città è trattato spesso dallo strumento del masterplan. Il masterplan non è uno strumento codificato in Italia ed è suscettibile di interpretazioni ma, laddove non lo si fa coincidere con il tradizionale (e rigido) planivolumetrico, si tratta di uno strumenti di lavoro che permette di costruire scenari di sviluppo locali, di orientare entro una cornice di senso le diverse mosse che gli operatori faranno in tempi e fasi differenti, nel quadro previsto dalle norme del piano. Questo può essere uno strumento utile per costruire cornici e indirizzi  in primo luogo  per gli interventi privati che vanno ad insistere su un’area estesa, ma anche come cornice per gli interventi pubblici che magari stanno in capo a differenti settori che talvolta si parlano poco.

Il caso del Masterplan di ReLambro è l’esempio di un tentativo di progettare con questa logica un settore urbano ampio, da realizzarsi in tempi successivi con interventi pubblici e privati, ma entro una cornice coerente (il punto poi è che l’attore pubblico sia in grado di usare questi strumenti come reali mezzi di orientamento degli interventi, ma questa è una riflessione che riguarda l’architettura delle strutture amministrative che lascerei per un’altra volta).

In sintesi. Penso che per governare alcune trasformazioni rilevanti, in una città come Milano, ora e nel prossimo futuro, il PGT e gli interventi singoli non siano sufficienti a costruire quel dialogo con i contesti locali di cui parlavo in apertura. Possono esserci molti modi per agevolarlo più o meno efficaci.  Io credo che prima di tutto occorra lavorare in maniera più efficace a una scala “intermedia” con alcuni obiettivi:

– assumere un approccio territoriale alle trasformazioni e lavorare ad una adeguata scala locale, di quartiere o di settore urbano significativo, con piani, strategie, masterplan  per ambire a governare, coordinare (e anche far comprendere e comunicare) le trasformazioni sia in situazioni come quelle  di Lambrate Rubattino o Città studi, sia per  i piani quartieri o per  la città a 15 minuti;
– integrare progetti e politiche, in altri termini fornire sia indicazioni di carattere morfologico, sia individuare azioni e politiche di accompagnamento. Questo significa riuscire ad essere fortemente intersettoriali e affrontare le trasformazioni locali facendo dialogare urbanistica, edilizia, mobilità ma anche commercio e politiche sociali che governano i servizi perché il territorio non funziona per compartimenti stagni;
– attrezzare la pubblica amministrazione di uffici dedicati a questo scopo, in altri termini dotare di sedi istituzionali in cui costruire questi piani o masterplan o visioni di scala locale con le opportune competenze (uffici tecnici dedicati, ma anche agenzie di progetto o anche in partnership pubblico privato, purchè fortemente integrate con gli uffici tecnici);
– e infine dotarsi di procedure di verifica e controllo per riuscire a valutare anche la rispondenza dei singoli progetti ai contesti e laddove presenti agli eventuali masterplan locali e non solamente alle norme del PGT o alla dimensione della qualità formale dell’edificio come spesso attiene alla Commissione Paesaggio;
– ripensare al ruolo e alle competenze dei Municipi anche da questo punto di vista, ad esempio, in materia di formulazione di pareri ed espressione delle esigenze locali, perché è chiaro che in quella sede sta molta conoscenza dei contesti che deve essere meglio messa in dialogo costruttivo con le trasformazioni urbane.
Milano si confronterà, ci auguriamo tutti, con una ripartenza dopo il Covid e dovrà avviare anche una riflessione di bilancio collettiva sul lavoro svolto in questi anni e su quanto sarà utile rimettere in campo per fare meglio.

Queste sono questioni solo apparentemente tecniche. Riguardano la capacità di costruire risposte più efficaci a problemi reali del territorio e dunque devono essere sostenute da una reale volontà politica di dare risposte alle esigenze locali, ai bisogni degli abitanti, prima ancora che alle dinamiche economiche finanziarie che sostengono il mercato delle trasformazioni urbane. Cosa non indifferente se si sostiene di volersi occupare della riduzione dei divari e delle disuguaglianze.

Antonella Bruzzese, Professoressa di Urbanistica, Politecnico di Milano

Vice Presidente Assessore Urbanistica, Edilizia e Demanio, Spazio Pubblico e Arredo Urbano, Verde, Ambiente e Mobilità del Municipio 3 di Milano

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