Il “modello-Milano” per Roma e per l’Italia

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14 Maggio 2017

Mi pare che l’odierna iniziativa del PD per pulire le strade di Roma dai rifiuti meriti qualche riflessione. Più che il merito della manifestazione, mi colpisce l’accostamento con il “modello-Milano”: quanto accaduto nella mia città nel 2015 dopo le devastazioni dei No-Expo fu una sollevazione popolare contro un avvenimento gravissimo, ma di natura straordinaria, e in pieno accordo con l’amministrazione legittimamente in carica, tant’è che Pisapia e i suoi assessori aprirono il corteo.
Qui, invece, c’è una ovvia sottolineatura dell’incapacità della Giunta-Raggi: per carità, è una manifestazione politica e la si faccia pure, ma più che Milano 2015 il riferimento storico mi pare quello delle ronde di leghista memoria. Starei anche attento a insistere con l’identificazione tra “modello-Milano” e le magliette gialle del PD. Anzi, spero che prima o poi si discuta anche di come questa pur bellissima esperienza di origine antifascista sia diventata un modello alternativo per il partito al quale sono iscritto e di come si sia arrivati a modificarne ipso facto i colori identificativi (eggià, il discusso blu dello scorso 25 aprile non era mica un caso isolato…).

 

Auspico quindi che la fase di confronto non si sia esaurita con il rapido iter di congresso e primarie, dal quale la leadership di Renzi è uscita in maniera indiscutibilmente rinforzata. Accettare la sua legittimazione è doveroso, soprattutto da parte di chi (come il sottoscritto) ha sostenuto altre opzioni. E non solo in questo congresso.
Altrimenti, si cade in un paradosso come quello efficacemente ritratto da Michele Serra sull’Espresso: “Un’altra parte (della sinistra-sinistra) è disposta ad allearsi con il PD, ma senza Renzi, che è un po’ come se voi voleste andare in vacanza in Liguria ponendo la condizione che non si veda il mare”.

 

Il riferimento del “modello-Milano”, quello vero, mi pare la chiave giusta anche per immaginare il futuro in maniera più costruttiva rispetto al bivio di fronte al quale molti non-renziani sentono di trovarsi: insistere nel provare a cambiare il partito da dentro oppure andarsene, come già in molti hanno fatto?

 

Questa dicotomia avrebbe senso se il PD fosse un organismo monolitico e immutabile, ma, a mio modesto avviso, il potenziale e il senso stesso di un partito non si vedono solo dalla sua composizione interna, bensì dalla sua collocazione sullo scacchiere politico. Non essendo efficace come l’inarrivabile Serra, la miglior metafora che mi viene in mente è quella della glicerina, una sostanza che viene usata per produrre creme e persino integratori alimentari, mentre, se combinata con in una miscela di acido nitrico e acido solforico, diventa un mortale esplosivo. Ecco, io oggi del PD ho un’immagine simile. La sua centralità nella vita politica è fuori discussione, ma qualunque giudizio sul suo conto deve necessariamente essere legato ai compagni di strada che si sceglierà, determinando così i propri effetti sulla vita di tutti noi.

 

Questo è un punto dirimente, perché fa saltare il (fondamentale) tema della lealtà e della coerenza interna. Quando si partecipa a un congresso o a un’elezione primaria, si prende un impegno preciso: ci si candida per il bene di una comunità e quindi, se si perde, è doveroso rimanere per dare comunque il proprio contributo. La comunità, però, è tale se sono condivisi i valori fondamentali che ne delimitano il perimetro: a quel punto, che il segretario sia Tizio o Caio può comportare solo un cambio di declinazione personale, ma rimane chiaro a tutti quale sarà la direzione collettiva, verso la quale tutti dovranno remare.

 

Nel PD (e non solo) questo meccanismo pare saltato, perché la figura del leader in pratica coincide con la scelta di orientamenti che invece necessiterebbero di percorsi di elaborazione più profondamente ed efficacemente partecipati. Anche per questo, mi spiace che la proposta di Orlando relativa a una conferenza programmatica da effettuare prima della contesa congressuale vera e propria non sia stata accolta. In un momento di così evidente crisi di identità, porsi qualche domanda del tipo “chi siamo, da dove veniamo e – soprattutto – dove andiamo?” non sarebbe stato sbagliato. Suona vetusto, me ne rendo conto, ma se l’alternativa è la rincorsa alla destra e ai populisti sui temi della sicurezza (il Decreto Minniti, la comica legge sul diritto di difesa, l’autogol mediatico della Serracchiani…) forse è il caso di fermarsi e di rispolverare quel “dibbattito” che un tempo terrorizzava non solo Nanni Moretti, ma molti di noi inermi spettatori.

 

La necessità di ritrovare la bussola si traduce soprattutto nella scelta delle alleanze, un tema di enorme difficoltà per via della marcata frammentazione post-maggioritaria. Ai sondaggi bisogna credere il giusto, ma questi dati elaborati da EMG Acqua lo scorso 9 maggio rispecchiano un trend confermato da altre analisi e rappresentano un’ipotesi di lavoro più che soddisfacente:

 

Solamente un netto salto in avanti sul piano della maturità politica e del senso delle istituzioni ci potrebbe sottrarre dall’ingovernabilità totale. Prima o dopo le elezioni, è necessario che si mettano da parte quei rancori personali che sul piano umano sono anche comprensibili, ma che potrebbero costare carissimo all’Italia. Posto che la coalizione – del tutto teorica – più vicina a raggiungere la maggioranza è quella formata da Movimento Cinque Stelle, Lega Nord e Fratelli d’Italia, la necessità di mettere l’interesse collettivo davanti all’orgoglio personale non è più eludibile.

 

Vorrei che il ragionamento non si fermasse al mero dato numerico, che pure è fondamentale. Se anche il matrimonio d’interesse tra il PD e la destra portasse alla vittoria elettorale (cosa non scontata), quali sarebbero le prospettive? Tra le cose buone che Renzi ha fatto c’è sicuramente la legge sulle unioni civili, ma, se arrivarci con Alfano è stato arduo, che patimento sarebbe stato lavorarci con Giovanardi? Nel precedente mandato da segretario, poi, Renzi ha avuto l’indiscutibile merito di portare il PD nel PSE, ma una benché minima coerenza porta a chiedersi allora quale senso avrebbe convolare a nozze con forze politiche tradizionalmente avverse. Si è parlato molto del parallelismo tra Renzi e Macron e quindi si cerca un corrispettivo locale al quale maritarsi per spostare ulteriormente il target del PD verso il centro. Ma è ovvio che il Macron italiano non possa essere che Renzi, anche per l’interpretazione molto personale che dà del suo ruolo di leader, e che il PD si sia già spostato verso il centro è un dato di fatto. Renzi ha vinto, piaccia o meno, e si è già detto della necessità di riconoscere la sua legittimità a timonare la nave. Proprio per questo, però, guardare troppo a destra è un errore anche su un piano meramente pragmatico: se il PD si è macronizzato non ha senso cercare un altro Macron con il quale allearsi, perché si finirebbe col cannibalizzare vicendevolmente lo stesso bacino elettorale. Si deve guardare a sinistra.

 

Tornando a Milano, la prospettiva di un ponte verso destra creerebbe un cortocircuito da Palazzo Marino ai vari Municipi, dove attualmente ci troviamo di fronte una controparte che mette i bastoni tra le ruote alle celebrazioni del 25 aprile, si scaglia contro migranti e questuanti e che negli ultimi giorni è arrivata persino a vaneggiare rispetto al presunto tentativo della Giunta-Sala di propagandare la fantomatica ideologia-gender, che sembra sempre più la versione moderna del Babau. Difficile immaginare un percorso comune che dia qualche risultato positivo.

 

Partire dal programma è fondamentale per affermare che non ci si muove per mera fame di potere, ma per dare delle risposte al Paese. Con Pisapia, il “modello-Milano” si è caratterizzato proprio dall’inclusione derivante dal progetto per la città, che mi pare un approccio ben più solido rispetto a quello di chi mette veti e punta all’autosufficienza. Solo ripetendo lo stesso percorso a livello nazionale tutte le varie anime del centrosinistra potranno essere coinvolte in un percorso collettivo, invece che disperdersi come plancton nell’oceano e ripetere errori alla Bertinotti. Solo questo percorso potrà, inoltre, attivare quelle numerose realtà associazionistiche e di amministrazione locale legate al civismo, ai diritti e all’ecologia che nella fotografia di EMG Acqua oggi non compaiono, ma che invece necessitano di rappresentanza e, soprattutto, coinvolgimento.

 

Anche se la costruzione di questa ipotesi è resa molto difficile sia dai numeri, sia dai rancori incrociati tra Renzi(ani) e Bersani(ani) e compagni, a questo PD serve necessariamente una gamba sinistra per dare vita a un progetto nuovo, perché capace di interpretare il futuro, eppure non in contrasto con i valori di riferimento che hanno portato alla nascita del partito. Per questo ho scelto di aderire fin dall’inizio a Campo Progressista, pur ovviamente rimanendo nel PD. C’è persino chi vede in maniera disdicevole il fatto che Pisapia voglia aprire questo genere di relazione con il PD e soprattutto con Renzi. Ora, se vi fosse in campo un’opzione credibile per dare all’Italia una svolta socialdemocratica, sarei anche disposto a parlarne, ma nel frattempo non mi avventurerei in territori onirici.

 

Il grosso limite della virtuosa esperienza milanese è stata l’incapacità di esportarla fuori dalla città, per quanto accaduto con le Regionali del 2012 e soprattutto con le Politiche del 2013, che hanno dato vita a quella fase dei governi di emergenza nazionale dalla quale dovremmo prima o poi uscire. Ma a Milano, guarda caso, il Movimento Cinque Stelle continua ad essere una presenza di sfondo e nemmeno il cambio di Sindaco ha indebolito una squadra che continua a rappresentare un esempio virtuoso di proposta progressista, capace di includere soggetti di varia estrazione.

 

Per questo ritengo che il generoso sforzo di Pisapia, che non ha certo bisogno di strapuntini personali, vada sostenuto con convinzione e coraggio, pur nella consapevolezza dell’estrema difficoltà della situazione e del fatto che il risultato è tutt’altro che scontato. È proprio dal PD di Milano che deve partire questa spinta, per tutte le ragioni che ho provato a mettere in luce. Mi fa quindi molto piacere che altri esponenti democratici si stiano avvicinando a questa proposta e sono convinto che nei prossimi giorni riusciremo a darle corpo con le prime iniziative sul territorio.

TAG: campo progressista, giuliano pisapia, Matteo Renzi, Pd
CAT: Milano, Partiti e politici

Un commento

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  1. silvia-bianchi 7 anni fa

    Le “magliette gialle” di Roma sono state l’opposto di quelle di Milano: le prime sono state una mobilitazione di partito in polemica con il sindaco, le seconde furono un gesto di riscossa e di solidarietà della società civile con il sindaco. Analogamente, lo schema politico di Renzi – la ricerca esasperata dell’autosufficienza elettorale del partito-maggioranza che governa da 4 anni in assenza di un vero programma – è l’opposto di quello coltivato da Pisapia a Milano, che si fondava sull’inclusione di partiti eterogenei su una comune base programmatica. Su queste basi, non capisco davvero come nel Pd (e fuori) qualcuno possa coltivare l’illusione di una fruttuosa convergenza tra i due schemi. Che dire: auguri

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