Foglie di fico, bugie e videotape (che tanto sesso ‘un ce n’è)
“Non vedo Matteo Renzi da dieci anni”. Stefano Massini, drammaturgo e nuovo consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano, dovrebbe saper pesare le parole. Soprattutto quando parla nel ruolo che fu di Giorgio Strehler e Luca Ronconi. Nell’èra post-Monica Lewinsky, infatti, non puoi essere smentito da un video in cui, presentato dall’odierno Premier, tuoni contro i vecchi alla manifestazione “Prossima fermata Italia” del novembre 2010. Massini invece quella frase la scrive su Facebook e, non contento, la ripete a Repubblica. Perché mente (non una, più volte)? E perché sulla stessa buccia di banana scivola il direttore Sergio Escobar, che l’ha nominato?
I fatti. A Porta a porta, a giugno, Renzi si vanta con Bruno Vespa di essere “compagno di scuola” del consulente del Piccolo di fresca nomina. Niente di nuovo, se ne chiacchiera da un po’. C’è chi azzarda che sia (o sia stato) il suo ghost writer. Trame da complottisti scadenti, certo. Di sicuro i due condividono lo stile di marketing quando recitano “Siamo la generazione Erasmus”, must renziano che conta sull’ignoranza degli italiani del tasso di devasto alcolico del mezz’anno di ferma universitaria all’estero. Ma un Presidente del Consiglio che, nei toni semiseri del suo ossessivo storytelling, lascia intendere che tutti coloro che hanno frequentato il liceo con lui siano unti del Signore non è un esempio di eleganza.
Perciò mi convinco che possa essere utile sgombrare il campo da equivoci su una istituzione pubblica come il Piccolo e posto su Facebook due domande. Per primo chiedo a Escobar: quale che sia la prossimità fra i due, essa non ha avuto alcun ruolo nella nomina di Massini, giusto? In pratica, un assist per la trasparenza. Si fa, nei Paesi civili. E, visto che ci sono, chiedo a Massini se la presenza di tre suoi copioni nella prossima stagione del «Teatro d’Europa» non sia eccessiva. Richiamando il decreto che norma questi casi, in un documento firmato poi con Massimo Sgorbani (autore Ubulibri, pluripremiato e andato in scena financo al Piccolo) aggiungeremo che non ci risulta che il capostipite dei teatri pubblici italiani abbia mai somministrato dosi così massice di un unico autore nello stesso cartellone, nemmeno nei casi di Eduardo o di Testori. In privato c’è chi ci scrive incoraggiandoci e chi s’abbandona a irriferibili commenti su Massini. Tutti sostengono che sono domande più che legittime, pochi sono disposti a dirlo in pubblico. Chi conosce me e Sgorbani, però, sa che non abbiamo mire o “negozi” in ballo e non ci spingeremmo fino a mettere la faccia su una simile iniziativa se non per difendere il sacrosanto diritto (e l’appagante felicità) di non vivere da sudditi.
Qui però accade quello che non t’aspetti. Per fugare dubbi che nessuno ha formulato, Massini scrive sul mio profilo Facebook: “Suggerisco a ognuno di andare a guardare quanto io abbia lavorato a Firenze in tutti gli anni del mandato di Renzi come Sindaco. La risposta è zero”. Ma tra il 2009 e il 2014, quando Renzi è sindaco, Massini compare in commissioni scientifiche, in qualità di curatore, selezionatore di attori, regista di eventi, autore (riscrive pure Savonarola e lo fa leggere a suore e preti), relatore di convegni, etc. in numerose manifestazioni, tutte sotto l’egida del Comune. Che l’«erede di Ronconi» non sappia quel che dice? Se anche questa non è una bugia, come il “non vedo (Renzi) da oltre dieci anni”, da buon drammaturgo imparasse ad esprimersi. E chissà cosa ne pensano a Repubblica, a cui ripete gli stessi concetti in una vibrante autodifesa contro veleni inesistenti (10 luglio, edizione milanese: “Nessuna dittatura, creerò scambi tra l’Italia e l’estero”, ndr).
Appurata l’insincerità del consulente, pure la reazione di Escobar fa pensare. Sulla fanpage del teatro manda a dire di aver “appreso del passato scolastico di Massini un mese dopo averlo nominato”. Davvero il direttore del primo teatro italiano, e uno dei più importanti d’Europa, è così distratto da non aver letto l’articolo – ancora di Repubblica – che a gennaio, presentando la Lehman Trilogy, già parlava del comune passato scolastico dei due e dove – ma perché mai? – Massini già giurava di non vedere Renzi da anni?
A cosa si deve questa evasività, questa nervosa perdita di aplomb? Sappiamo da noi che l’intricato sistema di incroci produttivi, distributivi e premiali entro cui si muove oggi un teatrante – regista, attore, ma anche critico, giornalista e perfino accademico – è così avvitato intorno a una spirale di ricatti e conflitti di interessi che, se ne fai parte, non puoi sgarrare. Figuriamoci fare domande o avere un’opinione. Una libertà che si paga con l’ostracismo di chi ti fa terra bruciata intorno e magari te lo minaccia pure da dietro una scrivania o al telefono. Sappiamo anche che in frangenti di crisi economica tali condizioni, per ragioni di sopravvivenza, si esasperano. Ma queste avvilenti distorsioni non possono giustificare l’ignoranza o il salomonico silenzio che accompagna il groviglio di questioni che lievita intorno al nuovo corso del Piccolo Teatro.
Con le nostre domande ci eravamo limitati a evocare temi irrisolti da decenni intorno ai compiti del teatro pubblico sognato da padri fondatori come Paolo Grassi e Strehler, fra cui si annovera la promozione della drammaturgia contemporanea. Ci accontentavamo, in nome di una pluralità di proposte, di richiamare le decisioni del legislatore che, con apposito decreto (i cui esiti discutibili sono all’ordine del giorno con la recente assegnazione dei finanziamenti) l’anno scorso ha limitato il numero di spettacoli che possono far capo ai dirigenti dei teatri finanziati dallo Stato. In un Paese normale questa esibizione di comportamenti tutt’altro che corrispondenti alle aspettative create dalla favola del “nuovo” che (basta e) avanza avrebbe esiti scontati. Ma – ci chiediamo – quanto c’entra tutto ciò con la nuova governance del Piccolo? Come mai nel nuovo Cda non ci sono più rappresentanti di rilievo del teatro e della cultura? Da dove è venuta la bizantina idea di ripescare il “pensionato” Salvatore Carrubba per la presidenza, avvalendosi di un’eccezione della riforma Madia in attesa di ritoccare la normativa? Forse non è un caso che sia venuta dal Sole 24ore la sintesi più lucida: “Si può dire che il Piccolo Teatro sia entrato in una fase caratterizzata dalla cultura finanziaria”.
Che la narrazione del giovane talento e della lotta alla gerontocrazia (con il mandato di Escobar in scadenza nel 2016), sia la foglia di fico per fare un gran chiasso al grido di «cambiamo tutto» perché nulla cambi?
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