Quando il diavolo ti attende a un crocevia

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24 Novembre 2023

Nella mia playlist di Spotify c’è un brano che ascolto sempre volentieri, in particolare quando posso alzare il volume o quando posso “aprire” un po’ più del solito in moto. E’ un blues, o meglio un Tabarka blues.

Ve lo propongo in una versione live del 2022 prima di iniziare a scambiare quattro chiacchiere con il suo autore.

Matteo Leone vorrei che ti presentassi da solo.

Sono un cantautore e polistrumentista sardo, sardo però in modo particolare, sono un tabarchino. Noi tabarchini siamo una piccola comunità  di origine ligure che vive in due isole poste a sud ovest della Sardegna, Carloforte e Sant’Antioco.

Siamo partiti originariamente oltre cinquecento anni fa da Pegli (attualmente un quartiere di Genova) per poi sbarcare a Tabarka sulle coste tunisine. Da lì successivamente siamo approdati nelle nostre due isole e di fronte alla costa spagnola a Nueva Tabarca. Noi siamo riusciti a mantenere integra e viva la nostra lingua mentre in Spagna si è perduta.

Devo fermare la tua presentazione perchè una domanda mi sorge spontanea. Ti senti prevalentemente ligure, sardo, tunisino o mediterraneo in generale?

Non è semplice risponderti, tra di noi c’è chi si sente ligure (e tifa convintamente per il Genoa), altri si sentono sardi, tunisini direi di no. C’è una bella poesia del poeta di Calasetta Bruno Rombi che dice “«I tabarchini non sono sardi, sono anche sardi. Non sono genovesi, sono anche genovesi. E non sono tunisini, sono anche tunisini». Siamo un insieme di queste tre tradizioni, nessuna esclude l’altra.

Continua a parlarmi di te.

Ho mosso i miei primi passi nel mondo della musica a circa quattro anni, in famiglia. Anzi forse prima, ascoltando. Mio padre lavorava in un progetto umanitario in Mauritania quando ero proprio piccolo e i suoni sentiti laggiù mi sono rimasti dentro.

La famiglia Leone di Calasetta è una famiglia di musicisti, mio nonno suonava nella banda, suo fratello era un direttore d’orchestra, il mio babbo suona, io sino da piccolissimo suonavo battendo sulle pentole che rubavo in cucina. E poi piano piano sono stato accolto in quella grande comunità che è la banda cittadina.

L’esperienza bandistica è molto frequente negli esordi di tanti artisti affermati.

La banda un tempo rappresentava la massima espressione musicale che si poteva ascoltare, specie nei piccoli paesi come il mio che conta circa tremila abitanti. Oggi la grande diffusione di internet ci consente di ascoltare musica di ogni genere con estrema facilità, mentre anni fa quando ero bambino per sentire qualcuno suonare la prima opzione era quella della banda musicale.

La banda ti insegna l’ascolto e ti consente di ascoltare una vasta gamma di strumenti e di capire quale tra questi è quello che maggiormente ti è affine. In particolare per chi è giovane entrare nel mondo bandistico è un’esperienza da coltivare.

Oltretutto le bande musicali rappresentano un valido baluardo da un punto di vista sociale essendo un potente centro di aggregazione, tanto è vero che in tutta Italia sono diffuse capillarmente in ogni regione, in ogni provincia, quasi in ogni comune.

Dopo la banda? Rock come ogni buon adolescente…

Dopo la banda è arrivata la batteria. E da lì ho vissuto diverse esperienze musicali, ad esempio a Bologna alla Scuola Popolare di Musica Ivan Illich. Ho sempre viaggiato abbinando la mia attività professionale (ero un cuoco) alla pratica della musica e ho girato il mondo.  Una volta tornato in pianta stabile a casa ho iniziato a studiare al Conservatorio.

Sei partito dal blues, sei un ottimo jazzista e hai vinto uno dei più importanti contest internazionali di world music (Premio Andrea Parodi ed. 2021). Qual è la musica che senti veramente tua?

Sono una persona che si annoia molto facilmente, davvero molto, ho bisogno di cambiare e di rinnovarmi con una certa frequenza. Tutto il bagaglio musicale che mi sono portato dietro, batteria jazz, chitarra blues e ora world music, è parte di me. Non potrei più fare a meno di ciascuna di queste esperienze, sono esperienze amatissime che hanno formato il musicista che sono adesso.

Io ti ho conosciuto come chitarrista blues. Il blues ti ha dato ottime soddisfazioni eppure hai deciso di metterti alla prova con la world music, come mai?

Nel 2017 ho vinto un premio che si chiama Italian Blues Challenge, in ambito blues è l’equivalente di un premio prestigioso come lo è il Parodi in ambito world music. Questo riconoscimento mi ha consentito di rappresentare l’Italia a livello europeo e internazionale, insieme a Donato Cherchi abbiamo suonato con il nome Don Leone, accedendo alle finali europee nel 2018 in Norvegia e poi alle semifinali a Memphis in Tennessee (USA) dell’International Blues Challenge.

Un contest di altissimo livello, supportato dal comitato organizzatore del Grammy Award, oltre duecentocinquanta artisti in gara provenienti da tutto il mondo, mancando la finalissima per un solo punto.  E’ stato il concretizzarsi di un sogno, suonare il blues in America e ottenere un ampio riconoscimento internazionale è stata un’esperienza indimenticabile.

Tornato a casa è seguita una fase di profonda riflessione, un sorta di vuoto,  e ho iniziato a sentirmi quasi a disagio. La domanda che mi passava per la testa era “perchè provo la sensazione di essere un impostore? Perchè io che vengo da un paesino della Sardegna devo suonare il blues americano che è una musica che ha poco a che vedere con la nostra tradizione?” Poi suonare il blues in Sardegna dopo averlo fatto in America non era proprio la stessa cosa.

Mi sono ripromesso di iniziare fare qualcosa di più vicino alle mie corde, di più vero, e da lì ho iniziato a elaborare l’idea che mi ha successivamente portato a realizzare il disco Raixe in tabarchino.

Cosa sono per te la batteria e la chitarra?

La batteria è uno strumento fisico, ti aiuta a sfogarti, ti porta un beneficio immediato. Inizi a suonare e stai bene subito. La chitarra invece è stato lo strumento che mi ha permesso di dare voce alle mie emozioni, lo strumento che mi ha consentito di esprimere al 100% il mio livello artistico. La batteria quando stai male e vuoi scaricarti è perfetta, la chitarra invece aiuta a  guardare più in profondità.

Amo ancora oggi le percussioni però la chitarra è lo strumento che mi ha folgorato. Non mi reputo un chitarrista perchè non ho mai studiato chitarra e so che a livello tecnico c’è gente molto più brava di me, quindi non mi definisco un chitarrista.

Sei un autodidatta?

Si con la chitarra si, totalmente autodidatta. Suono tantissimi strumenti ma l’unico che ho studiato in modo compiuto andando con assiduità a lezione al Conservatorio è la batteria, per quanto riguarda la batteria posso affermare di essere un musicista perfettamente formato.

A Sant’Antioco esiste una manifestazione culturale, giunta alla 21^ edizione, intitolata “al mare che tutto unisce”. Unisce davvero o inevitabilmente separa?

Dipende. Noi tabarchini abbiamo una concezione del mare diversa rispetto a quella della maggioranza dei sardi, lo dico ovviamente senza volere generalizzare. Per il sardo il mare è l’elemento dal quale giungeva tradizionalmente il nemico, l’invasore. Il colonizzatore arrivava dal mare.  Per noi invece, marinai per tradizione come i liguri, il mare è il simbolo della nostra provenienza.

Voi siete i conquistatori, non i conquistati.

In qualche modo si, il mare per noi è vita, è un elemento essenziale e indispensabile, un amore viscerale. Al momento non abito più a Calasetta ma a Carbonia, in fondo sono lontano solo venticinque minuti dal mare, eppure a volte mi manca l’aria. E sono solo venticinque minuti, non ore e ore. Prima quando mi trovavo a un minuto e mezzo dall’acqua mi sentivo  già lontano…

Ci sono alcuni posti della Sardegna, penso all’Ogliastra ad esempio, dove ci sono litorali meravigliosi eppure i residenti vanno poco al mare, lo vedono con una certa diffidenza. Deve trattarsi di una prudenza inconscia verso un elemento che nella storia ha creato qualche problema.  Noi tabarchini da questo punto di vista siamo “poco sardi”.

Quali sono i problemi di una Sardegna che viene vista come il Paradiso terrestre nella stagione balneare e poi viene trascurata e maltrattata appena si chiudono gli ombrelloni e si liberano i litorali?

Ti parlo dal Sulcis, una delle zone più in difficoltà del Paese, dove abbiamo il tristissimo primato di essere la provincia più povera d’Italia. Vivo in un territorio stuprato dove, sin da prima del fascismo, esistevano miniere che  poi nel ventennio sono state fortemente sfruttate. Prima le miniere, poi le fabbriche e quando lo sviluppo industriale si è bloccato qui è crollato tutto e la nostra economia è andata in pezzi.  E non si è mai creata un’economia alternativa.

A est abbiamo le basi militari, con Teulada che tutti conoscono, quando sparano a distanza di diversi chilometri a casa mia ballano i vetri. A ovest abbiamo il polo industriale di Portoscuso, uno dei più inquinanti del Mediterraneo. Non siamo sulle prime pagine dei giornali come l’ILVA di Taranto eppure siamo una bomba ecologica altrettanto pericolosa. Anche questo dimostra che alla fine della Sardegna non frega un cavolo a nessuno.

Abbiamo un tasso di mortalità per tumore da record, nella famiglia della mia compagna sono morti quasi tutti di cancro. Mia mamma ha avuto un tumore, non c’è famiglia che non abbia la sua croce. Eppure non se ne parla e si da tutto per scontato. La Sardegna è bella, però sta lì, e finite le vacanze dei sardi e della Sardegna non frega niente a nessuno.

Essere isolati ha i suoi vantaggi ma causa anche grandi problemi, non c’è poi da meravigliarsi se cresce un sentimento di autonomia che sfocia quasi nel concetto di indipendentismo.

Cosa ha rappresentato la vittoria del Premio Andrea Parodi 2021, con l’assegnazione di una serie di importanti riconoscimenti specifici, nello sviluppo della tua carriera?

Caratterialmente ho bisogno di fermarmi periodicamente per valutare come stanno andando le cose. Si tratta probabilmente di una sorta di insicurezza congenita. Anche quando scrivo e interpreto un brano nuovo lo sottopongo all’ascolto di un gruppo ristretto di persone a cui chiedo un feedback onesto e sincero.

Hai insomma una giuria critica personale.

Si, una giuria che so essere giusta e sincera, a volte anche feroce. Il Premio Parodi è stato un salto nel vuoto, mi sono messo alle spalle una porta sicura, il blues, e mi sono affacciato al mondo della world music. Mi è andata bene, con il mio tabarchino è andata davvero bene.

Questo premio prestigioso non lo considero un punto di arrivo, diciamo che  è uno dei miei punti di svolta, un checkpoint che mi aiuta a dare forza al mio cammino. Poi domani vedremo, io amo cambiare genere, come ti dicevo prima mi annoio facilmente.

Voce calda dal tono basso. Parlata ligure. Quante volte ti hanno detto che scimmiotti De Andrè?

Tante, troppe. Mamma mia, troppe. Io adoro De Andrè, sono cresciuto a pane e De Andrè, la sua voce mi piace molto ma essere paragonato a lui rappresenta un grosso problema.

Essere avvicinato al migliore di sempre non ti lascia scampo. Come lui non potrai mai essere, per quanto bravo tu possa essere sarai sempre più piccolo. Quando sono andato a Genova non sai quante volte mi sono sentito dire” mi ricordi Fabrizio…” e io morivo dentro.

Io faccio il possibile per essere Matteo, non scimmiotto nessuno, ma cosa posso farci se la mia voce è così? La mia voce è la mia voce. I tabarchini sono originari di Pegli, secondo te dove è nato Fabrizio De Andrè? A Pegli!

Lo scrittore Massimo Carlotto sostiene che un diavolo ti abbia atteso a un crocevia. Che diavolo era?

Nel mondo del blues esiste una leggenda. Si dice che Robert Johnson vendette l’anima al diavolo incontrato ad un crocevia e dal quel momento divenne il miglior chitarrista al mondo. Secondo Massimo io ho fatto lo stesso patto…

Parlami di questo nuovo album, RAIXE.

Raixe significa radici. Questo disco nasce da due diverse stesure, totalmente differenti tra di loro e avvenute in due momenti diversi. La prima, realizzata con lo stesso gruppo di musicisti con cui ho vinto il Premio Parodi, si è chiusa esattamente la sera prima che scattasse il lockdown per il covid. Durante la pandemia ho potuto riascoltarla più e più volte e non mi piaceva, non mi convinceva il prodotto finale.

Dopo avere partecipato e vinto il Premio Parodi ho chiesto a Michele Palmas di S’Ardmusic di produrre il disco e da lì abbiamo dato vita alla seconda e definitiva stesura, realizzata sempre con la collaborazione dei musicisti che mi avevano affiancato nella prima realizzazione. Il prodotto finito questa volta mi ha convinto ed è uscito questo RAIXE.

E’ un disco che rappresenta bene il mio essere in questo periodo, un disco  che ho iniziato a disegnare a trentatré anni e che racchiude il mio mondo, il mio essere tabarchino, alcune leggende del paese, Calasetta, il nostro mare.

All’interno di questo album c’è un pezzo bellissimo, intitolato Mustru,  che racconta una storia terribile. 

E’ stato scritto insieme al cantautore Simone Lecca, in arte Nepomuceno Bolognini, e parla di un fatto accaduto un po’ di anni fa. Sulla riva del mare venne trovato il corpo di un bambino africano annegato durante un tentativo di traversata del Mediterraneo, all’interno della sua giacca venne ritrovata una pagella cucita nella fodera. Una bellissima pagella piena di bei voti. Era il suo biglietto da visita, il suo passaporto per l’Europa. Quel ragazzo avrebbe voluto dimostrare a tutti quanto era bravo, quanto aveva studiato, voleva dirci che avremmo potuto accoglierlo perchè lui era un bravo studente e una brava persona. Ma la sua occasione di essere apprezzato non c’è mai stata.

Avete scritto una bellissima canzone, un piccolo gioiellino.

Preferisci l’atmosfera dello studio di registrazione dove puoi curare al meglio i tuoi suoni o l’esibizione dal vivo?

Da un punto di vista creativo lo studio ti da un valore aggiunto. In studio puoi sperimentare senza pressioni, non c’è nessuno che interferisce e crea emozioni “esterne”, il pubblico ti fornisce la carica ma in qualche modo mette pressione.

Se invece cerco le emozioni, sia positive sia negative, perchè non sempre in un live tutto gira perfettamente, l’esibizione dal vivo è l’occasione perfetta per scaricare l’adrenalina. A volte capita che dal palco non si vuole più scendere, è un’esperienza forte e appagante.

Per il futuro hai già qualche idea?

Sono molto interessato ad avviare una collaborazione con un gruppo sardo che mi interessa molto. Sono gli Ilienses di Gavoi, sono musicisti che seguono molto bene la tradizione, utilizzando il canto a tenore, i suoni fantastici dei tamburini di Gavoi, padroneggiando molto bene il folk antico e mixandolo con quei suoni che richiamano il folk dei gruppi metal del nord Europa, tipo Wardruna. E’ una sorta di pagan folk che a me piace molto.


Salutiamo Matteo Leone ascoltando ancora un suo brano musicale.

TAG: blues, calasetta, Genova pegli, matteo leone, premio parodi, s'ardmusic, sardegna, tabarchino, world music
CAT: Musica

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