Ascolto, lentezza e niente bluff: la musica classica secondo Nicola Campogrande

4 Ottobre 2015

Non sono rari, in questi ultimi anni, i libri che si prefiggono l’obbiettivo di raccontare la musica classica con parole più semplici e dirette, in grado di raggiungere anche i bambini, o le tantissime persone che, a torno o a ragione, si sentono comunque “estranee” ai riti e alle abitudini di quel mondo.

 

Si farebbe un torto a “Occhio alle orecchie” (Ponte alle Grazie, 142 pp., 12,50€) se lo si associasse solo a questo, pur  di “nobile” intento, gruppo di pubblicazioni, perché questo libro, appena uscito, è invece – oltre che una preziosa guida per “incontrare” la musica classica – anche un piccolo scrigno di domande e riflessioni interessanti su come si ascolta (e come si potrebbe farlo), sui luoghi, sul tempo, sul pubblico della musica classica.

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A scriverlo è Nicola Campogrande, compositore torinese di grande sensibilità divulgativa, come ben sanno anche gli ascoltatori di RadioTre, con cui collabora da anni.

In poco meno di 150 pagine, con brevi e pungenti capitoli, Campogrande stimola il lettore con una serie di eleganti annotazioni che non solo stimolano la riflessione in chi legge, ma creano anche un (non troppo) sottile desiderio di ascoltare (o tornare a farlo) molti capolavori del cosiddetto “grande repertorio”, a una dozzina dei quali è dedicata la parte finale del volume, che analizza in modo semplice e intrigante alcuni lavori di Beethoven, Bach, Brahms, ma anche di Berio e Respighi (di alcuni trovate qui qualche estratto)

 

 

Per farci raccontare qualcosa di più sul libro e per approfondire alcuni temi, abbiamo intervistato Nicola Campogrande per Gli Stati Generali.

 

Partiamo dalla nascita di questo libro. Quali sono state le circostanze che ti hanno portato a queste riflessioni? Te lo chiedo perché anche a me, man mano che passano gli anni, sembrano più urgenti riflessioni di questo tipo che non quelle strettamente critico/musicologiche, tanto che ai concerti mi ritrovo più spesso a riflettere sull’età degli spettatori, il loro comportamento che non sulla musica…

«Ho la fortuna di fare il compositore, il mestiere che sognavo da bambino. E lo faccio scrivendo musica per interpreti che si dedicano normalmente anche al grande repertorio, suonando per il consueto pubblico della musica classica, e non per i frequentatori di festival o di rassegne dedicate alla nuova musica. Trovarmi in cartellone accanto ai capolavori del passato mi ha spinto, negli anni, a pormi molte domande: su ciò che componevo, sulla ricerca della novità, su come impostare un dialogo fecondo con la musica della tradizione; ma anche sul modo in cui oggi ascoltiamo un concerto, sulla programmazione, su come viviamo fuori e su come poi ci comportiamo dentro un teatro o un auditorium, sul nostro rapporto con i dischi, con la rete, o con le musiche non occidentali o non di tradizione classica. Così, a poco a poco, mi sono abituato a osservare i miei vicini di posto, a leggere i commenti sui blog, a discutere appassionatamente nei foyer, a provare a riflettere, insomma, sul mio lavoro di compositore e su quello, simultaneo, di ascoltatore (perché anche quello, secondo me, è un po’ un mestiere). Poi, un giorno, mi ha telefonato un editore – Luigi Spagnol, responsabile di Ponte alle Grazie e di vari altri marchi del gruppo Gems –proponendomi di scrivere un libro che partisse da alcune delle mie riflessioni. Ci siamo incontrati, mi sono lasciato volentieri convincere, ed è nato “Occhio alle orecchie”».

 

 

Mi ha molto colpito che tra le prime parole/concetti del libro ci sia “comunità”, termine che a me piace molto e che secondo me è centrale nel discorso sul valore culturale di un’esperienza artistica. Quali comunità per la musica secondo te possono avere davvero forza oggi?

«Rovescerei la tua domanda: direi che la musica può dare forza a una comunità, la può rinsaldare, può generare quel sentire comune (che bella espressione!) del quale percepiamo la necessità. Nel mondo globalizzato, chi entra in una sala da concerto e ascolta un’ora di musica con altre mille persone, senza rispondere al telefono, senza mandare tweets, senza aggiornare il proprio stato su Facebook, senza chiudersi in se stesso ma lasciando invece che il proprio corpo, il proprio cervello, il proprio cuore vivano un’esperienza forte insieme agli altri, sta provando sulla propria pelle che cosa significhi comunità. Non so bene come tutto questo possa poi riversarsi nel mondo – temo che l’equazione ascoltatori di musica classica = cittadini migliori non sia applicabile; però sono certo che ascoltare un concerto continui ad essere un modo bellissimo per stare insieme, per sentirsi parte di un tutto. E non mi sembra che ce ne siano molti altri a disposizione, in giro…»

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Nel libro ti lanci in un’appassionata difesa del valore in sé della musica e anche di quello della sua pretesa “inutilità”. Credo che i valori culturali e artistici, per potere essere sostenuti e difesi senza che ciò suoni “a tesi” (per quanto nobile) debbano trovare il modo di rinnovare le modalità di condivisione con le comunità di riferimento. In che modo credi che la musica lo possa fare?

«Talvolta le sale sono vuote. Talaltra si sbadiglia. Ma se un brano, se un’esecuzione non trasmette nulla a chi la ascolta, difficilmente il problema è del pubblico. La musica classica è potente, è sexy, è entusiasmante; e però, da sola, non sembra più in grado di arrivare alle orecchie. Oggi non basta “esporla” perché la si apprezzi, come si fa con un quadro: bisogna che l’oggetto musicale sia trasmesso attraverso canali che si facciano spazio dentro di noi, che rinnovino il piacere, il godimento, che suscitino curiosità, emozione, magari sorpresa. Le modalità sono molte, dalla programmazione a tema alla presentazione verbale, dalla capacità di imporre interpretazioni originali alla pratica filologica più aggiornata, dall’uso della tecnologia alla scelta dei luoghi. Credo poco alla contaminazione, al meticciato: un trio di Brahms non ha bisogno dell’aggiunta di un duduk armeno: ha bisogno di interpreti che lo prendano in considerazione con fiducia, con abbandono, ma sapendo che non basta più suonare tutte le note giuste: per poterlo apprezzare, il pubblico avrà bisogno di seguire un sentiero che lo porti dentro la partitura, e questo ormai fa parte dei compiti dei musicisti e degli organizzatori».

 

 

 

Ho letto il tuo libro pochi giorni dopo avere terminato “Accelerazione e alienazione” di Hartmut Rosa, saggio che mi sembra essenziale per leggere i tempi in cui viviamo. Ho subito collegato le due cose quando parli del tempo della musica, della lentezza. Posto che, come dice Rosa, siamo immersi ormai (volenti o nolenti) in una continua sensazione di accelerazione del tempo e posto che, specialmente alle generazioni più giovani, è molto difficile suggerire una “forzata” (anche se autoimposta magari) decelerazione, come trovare delle “porte” verso la lentezza nella parte di questo treno che corre veloce?

«Anche i rave party, a un certo punto, finiscono; e i centometristi, prima o poi, hanno bisogno di fermarsi. Ecco: io credo che la musica classica debba starsene lì, dove ci si ferma. La sfida della velocità, oltre che persa in partenza, è insensata. Sia perché il Grande Repertorio è l’espressione di epoche che andavano più adagio, e aumentare il metronomo di un madrigale di Monteverdi o di una sinfonia Bruckner non mi pare una grande idea. Sia perché la velocità dei tempi in cui viviamo è tale grazie all’aiuto di macchine, di meccanismi che prescindono dal fisico umano – il mondo digitale va a batterie, non a pedali – e invece la musica classica è destinata a braccia, a occhi, a polmoni. Ti dirò: negli anni mi è capitato di comporre musica molto veloce, sfidando le possibilità degli interpreti, e la cosa talvolta è eccitante; ma le limitazioni fisiche della musica classica, il suo passare attraverso legno, ottone, crini di cavallo, pelli d’asino, continua a sembrarmi una ricchezza straordinaria, un richiamo alla nostra essenza umana. Forse, chissà, sarà proprio l’accelerazione del mondo a spingere nuovi ascoltatori a (ri)scoprirla».

 

Mi sono molto piaciuti i passaggi in cui sottolinei come il suonare e cantare insieme abbiano una forte valenza umana e anche politica. Ma è possibile che la musica – che in passato ha agito anche con forte connotazione politica – possa ritrovare una sua forza in questo senso?

«Puoi ascoltare tre concerti alla settimana e contemporaneamente essere un evasore fiscale, fregartene della raccolta differenziata e insultare gli insegnanti perché tuo figlio va male a scuola. La musica classica non mette al riparo da nulla, è chiaro. Però osservare la sua struttura, i suoi meccanismi, la sua pratica, pone di fronte a esempi paradigmatici che, dagli e dagli, possono lasciare il segno. Quello della musica classica, ad esempio, è un mondo in cui si bluffa poco: se non sai scrivere, se non sai suonare, lo si sente. E’ un mondo nel quale si collabora: dal duo all’orchestra sinfonica, è tutto un cercare soluzioni comuni. E’ un mondo dove vige il rispetto, talvolta super-gerarchizzato (come nei teatri d’opera), talaltra legato all’esperienza, all’autorità di chi si ha di fronte. E così via. Quel che è potente, nella musica, è che tutto questo vale sia per chi la pratica, cantando, suonando, che per chi la ascolta, e vede messe in pratica procedure di civiltà. Che un brano sia dedicato alla tragedia dei migranti o si proponga in modo del tutto astratto, invece, credo cambi poco, pochissimo: non è il titolo, non sono le intenzioni che contano; conta ciò che arriva alle nostre orecchie – e un po’ anche ai nostri occhi».

 

 

 

Nel libro ti limiti a parlare della musica classica, io sarei curioso e interessato a ampliare il discorso anche a altre musiche, ma per non aprire troppi fronti volevo intanto rimanere con te a confrontarmi brevemente sugli esiti del presunto “valore assoluto” della classica e della sua (malcelata) presunta superiorità rispetto a altre musiche. al di là del fatto di concordare o meno, mi ritrovo spesso a pensare che si sia trattato di un concetto “boomerang”, che oltre a delineare una “inferiorità” di altre pratiche, ha avuto l’effetto negativo di dare per scontato che la musica classica potesse essere sempre forte e significativa per generazioni e classi sociali che si succedono…. che ne pensi?

«Il presunto valore assoluto della musica classica è smentito nei fatti: conosco troppi musicisti che, finito di suonare Beethoven, non vedono l’ora di mettersi in cuffia del jazz, del rock, della musica elettronica  – e io sono tra questi. Per rilassarsi? Per rinfrancarsi? Macché: perché il mondo è pieno di altre musiche meravigliose che è fantastico ascoltare. Detto ciò, è vero che la musica classica, per la sua natura, ha bisogno di cure particolari, lunghe, costose, e in questo risiede in parte il suo valore. Ciò che fanno i compositori di musica classica, ad esempio, non ha paragone con ciò che accade per altri generi: impiegano settimane, mesi, talvolta anni per stendere una partitura, che poi verrà presa in considerazione da un organizzatore di concerti, e poi andrà affidata a interpreti diversi dal compositore stesso, magari molto numerosi, con i quali comincerà un dialogo, spesso con la mediazione di un direttore d’orchestra, prima che tutto questo possa diventare musica per le orecchie del pubblico. Tutto ciò non la rende necessariamente “forte e significativa”, per carità; però diciamo che, se non ne valesse la pena, forse non metteremmo in piedi questo sforzo collettivo».

 

Nel capitolo dedicato alla voce, citi l’esempio della persona che apprezza Puccini solo strumentale. Anche qui non può non colpirmi la lontananza con le abitudini delle comunità di ascoltatori pop, specie più giovani, per cui è la voce a essere sempre centrale (ad esempio negli anni ’70 potevano andare in classifica Mike Oldfield o J.M. Jarre, i ragazzi erano abituati alla musica strumentale, oggi è il contrario, nel jazz le major spingono cantanti e spingono strumentisti a fare progetti con la voce)… insomma questa voce è sempre un problema?

«La voce è centrale perché rappresenta il collegamento tra il corpo e la musica, tra una cosa ordinaria, quotidiana, e quell’esperienza speciale, preparata, costruita, che è l’espressione musicale. Già suonare uno strumento a percussione, anche solo le mani battute tra loro, spinge il gioco fuori dall’autopercezione che ci dà invece la voce umana. Talvolta questa diventa imprescindibile, come nel pop o nel jazz attuale; talaltra rappresenta un problema, come racconto nel mio libro. Ma il nocciolo della questione è sempre lo stesso: la voce è ciò che ci tiene “attaccati” alla musica».

 

 

 

Quali tuoi prossimi progetti?

«A Milano, con l’Orchestra Verdi, sono in corso le esecuzioni delle mie ventiquattro “Expo Variations”, un ciclo di variazioni su un tema originale che di volta in volta viene alimentato dall’inno nazionale di uno dei paesi presenti all’Expo. Poi sarò in Francia, dove due di queste partiture verranno riprese (una alla Philharmonie di Parigi, cosa molto eccitante). E intanto sto cominciando a lavorare ad una nuova commissione: il Teatro dell’opera di Liegi, in Belgio – si chiama Opéra Royal de Wallonie – mi ha chiesto di inventare un opera adatta anche ad un pubblico di bambini e di ragazzi; è una bella sfida, che mi appassiona molto».

TAG: libri, Musica, musica classica, Nicola Campogrande, Ponte alle Grazie
CAT: Musica, Musica classica

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