I gruppi in scena tra storia e innovazione
Invece continua la storia dei gruppi: di quel teatro fatto assieme, in una versione più stretta, compatta, della storica “compagnia teatrale”. I gruppi invece resistono e quanti, come me, davano precocemente per sfinita quella pagina, devono ricredersi.
Da un lato il declino della “regia” ormai conclamato; dall’altro il ritorno del “capocomicato” d’eccellenza, infine, le sfiancanti condizioni economico-culturali ci avevano spinto a registrare uno svilimento del “gruppo”. Figlio degli anni Settanta, di certa ricerca teatrale, il “gruppo” – che in origine era di Terzoteatro o di Postavanguardia, ovvero povero e rituale contro metropolitano e contemporaneo – si era moltiplicato a dismisura, perdendo dunque necessità e intensità. Dai gloriosi anni Novanta, registravamo una contabilità non sempre lieta: ogni stagione mille nuovi gruppi, destinati però a vita breve. Oggi, poi, tra bandi e banditi, tra premi e concorsi, i gruppi sembrano l’ultimo baluardo di uno stare insieme fatto più per esigenze di un “mercato” (meglio dire, ormai, mercatino) che obbliga a proposte sempre obbligatoriamente originali, a debutti reiterati, a creazioni sistematiche di gran consumo. Facendo lo slalom tra i micidiali 20 minuti di novità – ormai diventati lo standard iniziale – e la ricerca di un “santo produttore”, i gruppi giovani e meno giovani si devono reinventare la storia. Resta da vedere cosa accadrà a tante formazioni con la riforma di sistema voluta dal Ministero: ma alcuni sembrano resistere bene, e dunque ne prendiamo atto .
Allora mi piace mettere assieme due esperienze al tempo stesso lontane e vicine.
La prima è quella, storica e importante, di Teatri Uniti, il supergruppo di gruppi nato nel 1987 a Napoli dalla fusione di realtà come Falso Movimento, Teatro Studio di Caserta e Teatro dei Mutamenti. Il gruppo, insomma, che vanta personalità come il compianto Antonio Neiwiller, Toni Servillo, Mario Martone, Angelo Curti, Andrea Renzi e tanti, davvero tanti altri.
Una fucina di creatività, di resistenza, di azione creatrice a tutto campo, che costantemente si rinnova: persi magari alcuni pezzi, subito Teatri Uniti trova nuovo slancio e nuove energie per continuare a fare alto teatro. A Teatri Uniti, che sa guardare a Napoli ma anche al Mondo, rende giustamente omaggio il Vascello di Roma, altro spazio che ha ritrovato slancio e identità, alfiere – anche in questo caso – di una lunga storia di innovazione. Al Vascello abbiamo visto il bellissimo I Giocatori, che Enrico Ianniello ha tratto dal Els Jugadors del catalano Pau Mirò, diventato dunque Jucatùre in lingua napoletana. Spettacolo vivacissimo, affidato a quattro calzantissimi interpreti che travolgo in pubblico con un ritmo – comico – senza pari. In scena, il maestro Renato Carpentieri (uno dei migliori attori italiani, lo sosteniamo da tempo), con Tony Laudadio, Luciano Saltarelli e lo stesso Ianniello, cui si deve anche la nitida regia.
Avevo conosciuto Laudadio e Ianniello nella loro prima compagnia, l’Onorevole Teatro Casertano, forse ai primi anni novanta: li ritrovo smaglianti. Questo spettacolo è di grande intelligenza, di acuta e netta riflessione sul disagio esistenziale. Quattro uomini, non si capisce legati da cosa se non il vizio del gioco, influenzati dal più anziano e colto, un professore di matematica (Carpentieri) per sopravvivere alle proprie disgrazie si inventano una rapina in banca. La narrazione è serrata, le battute si sprecano senza esclusione di colpi, ma su tutto rimane come sospeso non solo il senso d’amarezza impersonato da quei quattro casi umani, ma anche un ambivalente finale che non svela se il “colpo”, la svolta per la loro grama esistenza, si avvenuto davvero o non si tratti solo di un sogno, di un’allucinazione, di un “pio” desiderio. E così la mancanza di speranza condivisa e condivisibile esplode in tutta la sua evidenza. Sognano di diventare ricchi, di pagare debiti e processi, di ricostruirsi la vita. Forse continueranno solo a giocare.
A Teatri Uniti, accosto volentieri il nome di un gruppo giovane, una strana composita formazione sostenuta produttivamente dal Teatro Kismet di Bari e formatasi alla Scuola Nico Pepe di Udine, ma con componenti provenienti da varie parte di Italia. Sto parlando di Vico Quarto Mazzini, compagine di grande interesse, artefice di un teatro sanguigno e colto, popolare e raffinato. Alle spalle la formazione con Arturo Cirillo e spettacoli con Michele Sinisi, i Vico Quarto sono in scena a Roma, al teatro Orologio, nientemeno che con I Sei personaggi di Pirandello. Coraggiosi, ma non ambiziosi, perché portano a casa un allestimento compatto, arguto, tagliente.
Il regista Gabriele Paolocà (di cui apprezzai un feroce e sguaiato Amleto) affonda nel pedante mondo pirandelliano, giocando di spiazzamenti e smottamenti. È finita l’epoca della sterile decostruzione, per fortuna, e Vico Quarto tesse una partitura che tiene fede all’originale – facendo emergere benissimo i sei personaggi originali, la loro necessità di azione – ma collocandoli in un contesto straniato e attuale. Basti dire che il “regista”, ossia il “capocomico” di Pirandello, per campare fa il Sandwichman, l’uomo panino che dà volantini per promuovere la vendita di hamburger. Non manca qualche ingenuità – il lavoro, visto al debutto, necessita di una messa a punto, soprattutto sui volumi – ma anche qui si evince una attenzione per l’arte dell’attore: in scena, i giovani protagonisti sono bravi e generosi e vale la pena citarli tutti, Michele Altamura, Nicola Borghesi, Riccardo Lanzarone, Paola Aiello, Natalie Norma Fella, compatti e affiatati nel rendere al meglio lo spirito e la sostanza dell’operazione.
Vibrano struggenti immagini – il grido della madre, di rara forza; l’arrivo travolgente di Madama Pace – e soluzioni decisamente originali, ma forse l’approccio drammaturgico e registico poteva anche osare di più. Perché qua e là – quando scappa il dettato originale – vince ancora il vecchio Pirandello. Ma questi Sei personaggi sono un passaggio importante, un segno di svolta per un gruppo in decisa crescita. Hanno ironia feroce, sforbiciano senza pietà tutte le retoriche della “tradizione” spingendola altrove: e approdano in un mondo febbrile, dilaniato, per nulla compiacente. Non v’è traccia di patetico, né di compiacimento estetico, se non la consapevolezza che quel testo del 1921 evocava un mondo, un teatro, una società che non ci sono più.
Annichiliti, spersi, sfranti, i “personaggi” oggi non possono far altro che occuparlo, un palcoscenico, invaderlo prepotentemente per farsi mettere in scena: ma quel regista, quell’intellettuale della scena, non ne ha più la forza.
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