Italiani rapiti a Mellitah, altro che accordo in Libia: il Paese è nel caos

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20 Luglio 2015

“Accordo di pace per la Libia”, titolavano i giornali tra sabato 11 e domenica 12 luglio, spiegando nelle righe successive che l’intesa non includeva il ‘governo di Tripoli’. Ossia la coalizione ‘Alba della Libia’ (Fajr), che unisce varie sigle islamiste non alleate dell’Isis. Anzi, molto spesso proprio questi miliziani hanno inferto dure sconfitte ai combattenti affiliati al gruppo che fa riferimento ad Abu Bakr al-Baghdadi.

Insomma è stato annunciato un presunto patto, sotto la supervisione dell’inviato dell’Onu Bernardino Leon, senza il principale interlocutore. Più un finto accordo che un reale percorso verso la cessazione delle ostilità. Tuttavia, nelle ore che hanno seguito questo passaggio era opportuna la prudenza per comprendere l’evoluzione dei fatti. Il quadro è comunque chiaro: l’intesa riguarda solo il governo di Tobruk, riconosciuto ufficialmente sullo scenario internazionale, e varie fazioni tribali che hanno un loro peso ma non riescono a essere determinanti.

E, purtroppo, a pochi giorni da quell’annuncio, arriva – terribile – la notizia del rapimento di quattro lavatori italiani, della società Bonatti, a Mellitah (punto di partenza del gasdotto Greenstream dell’Eni). Ancora non si conosce la matrice del sequestro, ma la notizia sembra suonare come una traumatica smentita all’eccessivo ottimismo ostentato dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che sabato 12 luglio scriveva su Facebook.

L’accordo di queste ore sulla Libia è un tassello importante del tentativo di stabilizzare la regione e restituire pace a questo grande Paese. Dal primo giorno del nostro impegno di governo abbiamo messo il Mediterraneo e più in generale il rapporto con l’Africa al centro della strategia italiana e speriamo in futuro anche europea. Ogni giorno che passa si fa più evidente la necessità di risolvere la crisi libica come scelta chiave sia per i rischi connessi al terrorismo, sia per le vicende legate all’immigrazione.

La Libia non è per niente un posto sicuro e anzi la situazione rischia di degenerare. L’assenza al tavolo della trattativa delle milizie islamiche di Fajr complica ulteriormente lo scacchiere. Eppure il governo italiano, attraverso le continue dichiarazioni di amore di Renzi, ha sposato, diplomaticamente, il presidente dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi. Un’amicizia personale rivendicata con orgoglio dal presidente del Consiglio, nella convinzione che l’ex generale possa rappresentare un fattore di stabilità.

Su L’Internazionale Francesca Borri ha già spiegato che tutto questo miele colante verso il numero del Cairo è un errore.

Al Sisi non ha stroncato solo la democrazia in Egitto, ma anche la primavera araba. E che è proprio per questo che si è avuto un aumento vertiginoso dei migranti, o più esattamente, dei profughi – perché la lingua, sì, le parole sono importanti – profughi in fuga da guerre e regimi autoritari di ogni tipo.

Ed è successo per questo motivo: perché capi di governo come lui si sono schierati con gli Al Sisi, gli Assad, come in passato con i Mubarak e i Gheddafi.

Ma non è solo una questione di diritti civili. La forza del ‘governo di Tripoli’ è il supporto della Turchia, altro grande attore della regione. Lanciandosi tra le braccia di al-Sisi, il governo italiano rischia di creare uno squilibrio nei rapporti diplomatici, spingendo i combattenti islamisti – oggi nemici dell’Isis – proprio verso la galassia del Califfato. La soluzione in Libia non può essere quella ‘egiziana’ con uno scontro frontale con i partiti islamici, bensì quello di un effettivo governo di “unità nazionale” in Libia. Perché quel territorio è di difficile controllo già per la sua conformazione. Per questo non si può ‘cantar vittoria’ per una bozza di accordo che nasce monca.

TAG: Al Sisi, Libia, Matteo Renzi
CAT: Nordafrica, Questione islamica

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