Ripartire, in concreto
In questo momento, il mantra ripetuto ossessivamente è “State a casa”. Lo sappiamo, ce lo ripetono tutti da ogni dove. Allo stesso modo, tutti sappiamo che le nostre vite e la nostra economia dovranno ripartire. Si tratta di stabilire quando e come.
Sul quando è del tutto inutile sparare date, dipenderà ovviamente dall’andamento dei contagi, ma dipenderà anche dalle modalità di ripartenza che adotteremo. Bisognerà farsi trovare pronti. Ma in che modo?
Provo a buttare giù qualche idea, sperando che il dibattito si sposti dall’ossessione per la reclusione alla speranza della ripartenza.
Le scuole e le università
Sono state le prime a chiudere. Il buon senso suggerisce di tenerle chiuse fino ad allarme rientrato definitivamente, non prima di settembre. I nostri studenti e professori, di ogni ordine e grado, hanno dimostrato una straordinaria duttilità. Non eravamo pronti alla teledidattica massiva, abbiamo retto l’urto in maniera egregia. Questo non vuol dire che non ci siano state e non ci siano ancora difficoltà, ma se ragioniamo sui grandi numeri, il sistema ha funzionato. Per il futuro si dovranno uniformare le piattaforme e bisognerà studiare un approccio unitario, visto che, giocoforza, in questa fase moltissimo è stato lasciato alla improvvisazione. Questo, sia nella prospettiva che il virus torni a diffondersi (si discute molto della prospettiva di lockdown a singhiozzo per li futuro), sia per altre, allo stato imprevedibili, emergenze. Ovviamente, tenere i ragazzi a casa, che sia per una settimana o per un mese, incide sulla vita e sulla organizzazione di milioni di famiglie, ecco perché l’argomento istruzione è strettamente legato a quello del lavoro.
Il lavoro dipendente
L’altro grande esperimento sociale al quale abbiamo assistito in queste tristi settimane, oltre alla teledidattica, è stato quello dello smartworking o lavoro agile o telelavoro che dir si voglia. La riuscita di questo esperimento è stata meno uniforme rispetto a quello accaduto nella scuola. Il punto di partenza è stato lo stesso: non eravamo pronti. Ma in queste settimane moltissimo è stato fatto e da lì si dovrà ripartire, progettando ed organizzando nuove modalità di lavoro. Se distinguiamo il lavoro in due grandi categorie, quello manuale e quello intellettuale, abbiamo grosso modo la distinzione tra chi deve per forza recarsi sul posto di lavoro e chi può essere messo in grado di lavorare da casa, del tutto o parzialmente. Per il primo gruppo, specialmente nei moltissimi casi in cui il distanziamento è impossibile, vanno prese misure cautelative e di protezione: tute, mascherine, igienizzazione e sanificazione dei luoghi di lavoro. Andrà rivista la normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro e bisognerà aiutare le imprese e gli enti nella adozione dei nuovi standard. Il secondo gruppo, quello che può lavorare in casa, va incentivato in tal senso, dando la precedenza (a seconda dei periodi) a chi ha figli in età scolastica e a chi deve utilizzare mezzi pubblici per spostarsi. La pubblica amministrazione, inoltre, dovrebbe sveltire le procedure di mobilità e consentire a quelli che ne facciano richiesta, ove ne ricorrano le condizioni, di lavorare nella sede più vicina alla propria abitazione. Uno dei temi è quello di ridurre l’utilizzo dei mezzi pubblici, dove tenere la distanza è impossibile, senza congestionare tutto con il trasporto privato.
Liberi professionisti
Il mondo degli avvocati, dei notai, di ingegneri e architetti, consulenti, etc. è fatto per una parte importantissima di relazioni, appuntamenti, incontri e meeting. È del tutto ovvio che non saranno applicabili le vecchie modalità da subito. Anche gli studi professionali dovranno adottare standard più elevati sia per quanto riguarda la pulizia dei locali che per quanto riguarda l’utilizzo di dispositivi di protezione. Questi standard vanno individuati immediatamente, per mettere in grado un mondo duramente colpito dal lockdown di ripartire in sicurezza. Forse dovremo parlare con l’avvocato dietro un vetro di plexiglass e non potremo più piegarci accanto all’architetto per mostrargli sulla piantina dove vogliamo costruire il nuovo edificio, ma è fondamentale definire da subito quali misure andranno prese.
Il commercio
Dovremo adottare, almeno inizialmente, il modello che stiamo utilizzando al supermercato in questi giorni. Si entra un tot alla volta, si sta in fila distanziati fuori. A Napoli non potremo più gustare il caffè al banco in 6 0 7 contemporaneamente, come accadeva prima. Per non far diminuire troppo i volumi di vendita, bisognerà incoraggiare il sistema di vendita ibrido fisico/online. Dovranno essere implementate le consegne a domicilio. Anche i piccoli negozi dovranno necessariamente riorganizzarsi e chissà quando potremo tornare a provare un golfino in un camerino. Nuove norme dovranno essere adottate anche per la ristorazione (il monouso, ad esempio, è più sicuro, ma inquina. Forse bisognerà incentivare la produzione e l’utilizzo di posate, piatti, vaschette e bicchieri biodegradabili? Oppure i locali dovranno dotarsi di sterilizzatori del tipo che attualmente utilizzano i dentisti?). I clienti dovranno sedere, immagino, ad una certa distanza, i locali dovranno essere areati in maniera più accurata. Anche questo va studiato e normato, dando modo e tempo a tutti di adeguarsi.
Il trasporto pubblico
Ci siamo abituati a treni, autobus e metropolitane stracolme, in cui bisogna spingere e farsi largo per entrare. Se vogliamo riprendere le nostre vite e non far ripartire immediatamente il contagio, dobbiamo cancellare quelle immagini dalla nostra quotidianità. Come potremo fare? Potenziando il servizio, verrebbe da rispondere, ma è una risposta improponibile. I vagoni di treni e metropolitane non si trovano al mercato sotto casa; aumentare le corse ha un costo e chi dovrebbe sopportarlo? In un primo momento l’accesso potrà essere contingentato, ma bisogna ragionare nel lungo periodo e trovare soluzioni innovative, anche nella progettazione di carrozze e scompartimenti.
La produzione industriale
Uno dei grandi temi che è venuto alla luce durante la crisi dovuta al diffondersi del Coronavirus, oltre alla adeguatezza delle strutture sanitarie, è stata la dislocazione mondiale della produzione dei dispositivi di protezione individuale e delle apparecchiature mediche. Pian piano e silenziosamente ci siamo trovati in un mondo in cui, semplificando, la Cina produce e l’occidente consuma. È stato evidente a tutti quello che questa scelta ha prodotto: scarsità di merce, difficoltà o impossibilità di approvvigionamento, speculazione. Forse bisognerebbe rivedere questa scelta e stabilire che alcune merci, quelle la cui domanda può aumentare in maniera esponenziale durante una pandemia, debbano essere necessariamente prodotte sul territorio nazionale. Sarà necessaria una riconversione industriale di alcune realtà già presenti e bisognerà studiare il meccanismo giuridico che non configuri una scelta del genere come aiuti di stato alle imprese coinvolte, ma è da prendere in considerazione l’idea che alcuni beni siano di interesse nazionale, per evitare che i nostri medici ed infermieri si trovino, in futuro, ad operare di nuovo in condizioni che non garantiscono la loro sicurezza e che, paradossalmente, hanno finito per aiutare la diffusione del contagio.
La sanità pubblica
È il tema cardine da affrontare. La ripartizione delle competenze su base regionale è stata un punto di forza o di debolezza durante la crisi? I tagli di strutture e di personale degli anni passati quanto hanno influito sull’altissimo prezzo in termini di vite umane che l’Italia ha pagato per il Coronavirus? Possiamo ancora consentire che la distribuzione, ad esempio, delle terapie intensive sul territorio nazionale sia così marcatamente difforme? Quanto si è rivelata efficiente la presenza della Protezione Civile nelle procedure di approvvigionamento di beni? Non ho, ovviamente, la risposta a queste domande, ma credo sia necessario trovarle e porle alla base dei futuri piani che riguardano la sanità italiana e la gestione di future crisi.
Di queste ed altre questioni credo che il Paese nei prossimi giorni debba discutere. Su questi temi il Parlamento dovrà prendere decisioni importanti e tempestive. Prima che il motto salvavita “state a casa” si trasformi in una condanna irreversibile.
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