Nessuno è inidoneo al lavoro. Per lo meno, non in senso assoluto. Non chi ha problemi di dipendenze, difficoltà relazionali, uno stato di salute precario o, ancora, denuncia incertezze finanziarie, non ha una preparazione specifica o competenze precise. A dimostrare l’indimostrabile e a smontare la retorica, un po’ pigra, dei fannulloni sul divano, c’è l’esperienza francese ‘Territoires Zéro Chômer de Longue Durée’ – ovvero zone a zero disoccupazione di lunga durata. Avviato nel 2016, il progetto ha consentito a dieci territori francesi di sperimentare il diritto al lavoro e a 2.671 persone disoccupate di lungo periodo (oltre i due anni) di trovare un impiego. Numeri piccoli, in confronto a un bisogno che, secondo le statistiche ufficiali ancora nel quarto trimestre del 2022 superava i 2 milioni 400 mila unità. Si tratta ovviamente di posti di lavoro creati attraverso canali alternativi rispetto alle agenzie pubbliche e alle sovvenzioni per le imprese e questo spiega l’esiguità dei risultati. Il modello è risultato tuttavia molto originale, tanto da catturare l’attenzione a livello europeo dove l’esperienza francese è stata replicata e adattata con analoghe iniziative in Austria, Germania, Paesi Bassi e, oggi, anche in Italia.
È Roma tra le prime amministrazioni ad aver presentato il progetto ‘Territori a disoccupazione zero’ innestandolo nel più ampio programma dei Programmi Urbani Integrati (PUI) del Pnrr. L’iniziativa è di Roma Capitale con l’Università Sapienza che ha deciso di elaborare un progetto pilota su due dei quartieri più difficili, Tor Bella Monaca e Corviale, per testare la metodologia e poi eventualmente estenderlo ad altre realtà. Una sfida con molti ostacoli a partire dal fatto che si tratta di una sperimentazione, che i fondi messi a bilancio sono limitati e che la riuscita dipende anche da quanto sarà possibile coinvolgere attori sociali diversificati, i municipi, le associazioni di volontariato, le piccole imprese e intercettare risorse aggiuntive. Senza contare che per dare continuità al progetto si dovranno verificare almeno due condizioni: che il lavoro creato sia ‘reale’, cioè riesca a soddisfare esigenze concrete e coprire la cronica mancanza di servizi che affligge le periferie romane; sarà necessaria comunque l’integrazione salariale da parte del pubblico, magari attraverso la leva fiscale, perché gran parte del nuovo lavoro ipotizzato è in servizi a basso o bassissimo valore aggiunto, come l’assistenza agli anziani, ai minori, ai disabili o il contrasto alla dispersione scolastica.
Ostacoli che tuttavia non spaventano Andrea Ciarini direttore del Master di secondo livello in Terzo Settore, Innovazione sociale e governance dei sistemi locali di welfare all’Università Sapienza di Roma, a cui sono stati affidati coordinamento e responsabilità scientifica del progetto. «Diversamente da quanto si fa tradizionalmente con le politiche attive del lavoro, noi vogliamo partire dai bisogni esistenti per creare il lavoro che effettivamente serve in quella specifica zona», afferma. «Siamo convinti che l’innovazione sociale in questo settore passi dall’individuazione di strumenti diversi rispetto al sussidio per i disoccupati e gli incentivi per le imprese. In questo caso i fondi del Pnrr di Roma Capitale sono fatti di azioni materiali e immateriali sulla rigenerazione urbana non solo per le infrastrutture ma anche di azioni di contrasto alle disuguaglianze e creazione di lavoro attraverso partenariati».
Il piano studiato dal Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Sapienza Università di Roma – finanziato con 280 mila euro del Pnrr di Roma Capitale destinati alla sperimentazione – prevede uno sviluppo in tre fasi: la mappatura dei bisogni, il coinvolgimento di tutti gli attori per costruire insieme una strategia in grado di rispondere a quei bisogni attraverso il lavoro e infine la promozione di percorsi di inserimento lavorativo che rispondano ai bisogni analizzati e mappati con il coinvolgimento del tessuto sociale e produttivo del territorio.
«Dall’analisi ci aspettiamo possano sorgere esigenze anche in altri settori oltre al welfare», specifica Ciarini, «come la rigenerazione urbana, riuso del territorio o la riconversione produttiva di imprese in via di ristrutturazione o a rischio chiusura, senza dimenticare i beni culturali e il turismo dove servizi integrativi per la tutela e la valorizzazione del patrimonio artistico-culturale, il turismo sostenibile e i beni comuni territoriali sono tutti suscettibili di creare nuova domanda di lavoro».
L’idea dei Territori a disoccupazione Zero, chiarisce il docente, non è in concorrenza con le politiche attive del lavoro né si tratta di Lavori socialmente utili. «I lfu sono una forma di lavoro sussidiato alle dipendenze del pubblico, non nascono da progettualità territoriale e rimangono in piedi finché lo stato o un ente pubblico li finanzia fungendo di fatto da datore di lavoro di ultima istanza. Noi vogliamo invece lavoro sostenibile, in grado di crescere e attrarre finanziamenti privati. Sarà duraturo se risponde a bisogni esistenti».
«I dati ci dicono che le categorie più fragili e deboli restano in gran parte escluse dal mercato del lavoro perché domanda e offerta comunque non si incontrano. Le politiche attive, attraverso le quali spesso di fa formazione senza prestare attenzione alle richieste del mercato restano in gran parte inefficaci. D’altro canto le imprese, specie quelle più piccole, faticano ad assorbire figure di cui non hanno bisogno, anche di fronte a misure fiscali o contributive molto favorevoli».
Se la sperimentazione darà i risultati attesi si potranno creare cooperative di lavoratori o addirittura piccole imprese. Ciarini rimane ottimista anche sul fronte delle risorse da intercettare in una seconda fase: «Ci sono tanti finanziamenti che le città possono utilizzare, dai programmi di rigenerazione urbana ai programmi europei, come il PON Metro 2027. E poi lo sviluppo potrebbe portare alla creazione di un Fondo di investimento nazionale che non solo eroga finanziamenti legati a progettualità territoriali, coprendo una frazione del costo del lavoro sostenuto dalle imprese sociali attivate, ma investe anche su azioni di accompagnamento, animazione territoriale, supporto alla lettura dei bisogni, assistenza tecnica per la costruzione di partenariati territoriali, come avviene in Francia».
Il modello potrebbe infine diventare un caso di scuola in Italia ed essere esteso ad altre realtà con la possibilità di costituire una rete città italiane a disoccupazione zero. Alcune piccole iniziative sono già presenti, come nel comune di Rosolini in provincia di Siracusa.
A livello europeo, dopo il parere sulle prospettive locali e regionali presentato a fine maggio da Yonnec Polet, vicesegretario generale del PSE e membro del Comitato delle Regioni, il tema dei territori a disoccupazione zero comincia a essere discusso all’interno delle istituzioni. Martedì 26 giugno c’è stata una riunione al Parlamento europeo promossa dalle deputate Aurore Lalucq e Agnes Jongerius per fare il punto della situazione e sollecitare la creazione di un fondo ad hoc per queste sperimentazioni. Una priorità anche per il commissario all’occupazione e agli affari sociali, il lussemburghese Nicolas Schmit che sta tentando di trovare risorse per 23 milioni di euro da destinare alle iniziative create sul modello francese per il biennio 2024-2025.
Intanto in Francia l’iniziativa è passata alla fase due e coinvolge un totale di 50 nuovi territori, tra cui Parigi.
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