Ulisse, Saltatempo, Charles e il «Modello Padova»

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1 Luglio 2017

Per alcuni si può chiamare «Modello Padova» e vale per l’Italia tutta, per altri è un autentico «capolavoro politico» che merita l’uso di «toni epici». Comunque la si metta, il risultato della recente tornata di elezioni amministrative con la vittoria al ballottaggio di Giordani e Lorenzoni ha lasciato il segno, anzi più di uno.

Vediamoli.

Prendete l’Odissea e andate al libro XII, nel punto in cui la maga Circe istruisce Ulisse sui rischi che ancora lo attendono nel suo navigar verso Itaca.

Siamo in prossimità dell’isola delle Sirene. Il loro canto è irresistibile: se Ulisse cede alla tentazione di ascoltarlo, perderà l’orientamento e non riuscirà mai a tornare alla sua Itaca. Il nostro eroe vuole questo e quello, senza compromessi e senza rinunce. Ci riesce con una decisione spiazzante per un capo come lui: ordina ai suoi compagni di bloccargli mani e piedi e di legarlo all’albero della nave; quindi ottura con la cera le loro orecchie, ma prima li autorizza a disobbedirgli qualora chiedesse di scioglierlo mentre sono ancora vicini a «quell’infida spiaggia». Il poema di Omero ci dice che tale decisione funzionò e la letteratura economica da questo episodio ha tratto il concetto di «Paternalismo di Ulisse».

Ulisse si trova in una situazione di incoerenza intertemporale tra obiettivi e azioni.

Il raggiungimento dell’obiettivo di breve periodo (ascoltare il canto delle sirene) porta inevitabilmente al mutamento delle preferenze (sarà vinto dal canto), che rende irraggiungibile il secondo, più lontano nel tempo ma ugualmente importante (tornare a Itaca). Esce dall’impasse rinunciando all’esercizio del potere per un tempo limitato, non prima di aver impartito ordini precisi per mettere in sicurezza la strategia adottata.

Tra la fine del 2016 e i primi due mesi del 2017, dopo la sfiducia subita dalla Giunta verde-azzurra della Città del Santo e il conseguente commissariamento del Comune, il Partito Democratico di Padova si è trovato nella stessa situazione di incoerenza intertemporale tra obiettivi e azioni che visse Ulisse all’epoca.

E, con qualche (accettabile) forzatura, ha adottato la stessa strategia decisionale dell’epico eroe.

Forte era il desiderio di assumere immediatamente la guida per condurre la campagna elettorale. Altrettanto forte era il desiderio di tornare a Palazzo Moroni (la sede del Comune). Tra il primo e il secondo obiettivo, però, c’era di mezzo l’insidioso rischio che sei estenuanti mesi di campagna elettorale e i prevedibili «distinguo» di tutte le anime della sinistra, intenzionata per di più a chiedere le primarie, avrebbero compromesso un partito già sfiancato dalla batosta referendaria.

Ecco allora la scelta coraggiosa e spiazzante

In sequenza: strategia deliberata di rinuncia ad esprimere progettualità e leadership targate Partito Democratico; individuazione di tutti i «marinai» accomunati dal desiderio di «tornare a Itaca» e disponibili a remare; cera per otturare le orecchie di tutti al fine di non perdere l’orientamento, non lasciarsi distrarre e puntare senza indugio all’obiettivo; ri-appropriazione della funzione-guida, dopo aver superato il tratto «ad elevato rischio» e aver raggiunto il secondo obiettivo.

Senza se e senza ma, la strategia dei vertici del Partito Democratico di Padova all’inizio ha spiazzato molti (me compreso), ma alla fine si è dimostrata vincente.

Qualche giorno fa, uno degli artefici di questo successo ha scritto che la riconquista di Palazzo Moroni è un’impresa che merita di essere descritta con «toni epici»: l’analogia con Ulisse cade a fagiolo.

Per cogliere il secondo segno impresso dall’esito della tornata amministrativa a Padova, prendete come spunto uno dei passaggi (per me) più esilaranti di Saltatempo, il romanzo di Stefano Benni del 2001.

Per chi non ha letto il libro, ecco il contesto e il contenuto.

Siamo al quarto capitolo della terza parte. Saltatempo, il protagonista della storia, è al suo ultimo anno di liceo. L’anno si interruppe bruscamente a causa delle occupazioni, delle lotte e delle gelosie con lacrime e dubbi laceranti tra il personale e il collettivo, «come quando Mina, quella con le treccine, una sera chiese, potrebbe venire a dormine qui il mio ragazzo che però è apolitico? Le donne risposero sì, perché la tua sessualità fa parte della tua militanza, ma non è ad essa subalterna, basta che non sia proprio un fascista. Gli uomini risposero no, perché ci siamo qui noi e non comprendiamo perché si debba tocciare fuori nel calderone della sessualità qualunquista quando qui c’è tanta fava rivoluzionaria».

La risposta degli amici maschi di Saltatempo è in linea con la sensazione provata da un certo numero di persone vicine al Partito Democratico (me compreso), a fronte della decisione, a parole da discutere ma nei fatti irrevocabile, presa dalle direzioni piddine cittadina e provinciale di rinunciare a valutare collegialmente qualsivoglia candidatura interna e puntare dritti su figure esterne alla storia e ai valori del Partito Democratico.

I «dissidenti»(si fa per dire) sono stati sonoramente bocciati dagli esiti delle urne, che hanno invece premiato chi ha assecondato la «richiesta di Mina».

È il segno che in situazioni di elevata incertezza e sotto la pressione del tempo, l’oculato impiego di un modello di leadership direttiva o al più transazionale (quella che scende a compromessi per massimizzare la propria posizione relativa) si dimostra efficace perché privilegia comportamenti razionali rispetto allo scopo, lasciando momentaneamente sullo sfondo la coerenza rispetto ai valori e alle prassi.

Solo degli autentici leader riescono ad adottare stili di direzione differenti in breve tempo con la medesima efficacia: prima hanno il coraggio di prendere decisioni «dissonanti e dirompenti», poi sanno azionare le leve per tenere unito il gruppo bloccando le spinte centrifughe, e infine creano quel consenso sincero, diffuso, generoso e contagioso tipico dei leader trasformazionali (che fanno leva su vision e valori e creano una relazione di lungo periodo motivante ed emotivamente appagante) che porta alla vittoria.

Per alcuni, l’intera operazione ha avuto un prezzo sproporzionato in termini di rilevanza e centralità del Partito Democratico. Per altri, invece, si è trattato di un «capolavoro politico». Nel breve periodo è vera la seconda, nel medio non si sa: si sa solo che su questo orizzonte si misura la statura dei leader.

Il terzo aspetto su cui il «Modello Padova» ci dice qualche cosa si riferisce alla «rinascita della partecipazione», ben spiegata nel contributo di Michela Cella su queste colonne (La lezione di Padova per quelli che vanno da Pisapia a Che Guevara).

Quello che è successo assomiglia molto allo «sperimentalismo democratico» proposto da Charles Sabel, che in Italia è stato descritto bene e sinteticamente da Fabrizio Barca in “La traversata. Una nuova idea di partito e di governo”, e che a Padova è stato messo in pratica da Coalizione Civica.

Alcuni tratti essenziali di questo approccio sono:

«mobilitazione cognitiva», ovvero l’assunto secondo cui il vero nemico della governabilità è il deficit di conoscenza e di partecipazione nelle decisioni e nella loro attuazione;

«organizzazione della folla», ovvero il superamento dell’idea che la folla possa esprimere le decisioni in modo spontaneo attraverso la rete;

«decisioni partecipate», ovvero una valutazione pubblica, accesa e aperta, nella fase iniziale del processo decisionale, intercettando le conoscenze (degli esperti, degli attuatori e dei beneficiari) distribuite nel territorio su cui quelle decisioni poi impattano.

Coalizione Civica ha fatto tutte queste cose e nel giro di qualche mese è diventata una innovativa e originale interfaccia tra società e governo della cosa pubblica, gestendo dinamicamente decisioni razionali rispetto allo scopo e rispetto ai valori.

I percorsi partecipati sono irti di difficoltà (conflitti di idee, costi di coordinamento, lentezza delle decisioni) ma, se ben organizzati, sono promettenti perché accedono a tutti i vantaggi delle intelligenze distribuite e mettono le persone nelle condizioni di partecipare e di voler partecipare alle decisioni pubbliche che riguardano la qualità della loro vita. In certe fasi, non hanno rivali.

A una settimana dall’esito del ballottaggio e con la Giunta comunale ancora in corso di assestamento, non è possibile dire se il «Modello Padova» funzionerà e se potrà diventare un benchmark per la politica nazionale.

Con i se e con i ma, dice un arguto politico, non si va lontano.

Intanto facciamolo funzionare, e buona notte al secchio.

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CAT: Padova, Partiti e politici

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