Parigi e Beirut. Pensare bifocale

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23 Novembre 2015

Parigi e Beirut hanno avuto una continuità drammatica in questi giorni, e una contrapposizione implicita. Vittime consecutive, ma paradossalmente antagonistiche nelle polemiche riguardo la nostra commozione e i lutti passati in silenzio (e finanche al riguardo di Facebook prontamente postasi al servizio della sicurezza dei francesi e immobile per i libanesi). Parigi-Beirut sono la continuità-contrapposizione tra la profilassi interna e le azioni da intraprendere in Medio Oriente (Beirut non è Raqqa, ovviamente, ma l’Isis ci sta insegnando a pensare il fronte di guerra indipendentemente dalle frontiere). Ormai è chiaro che il cul de sac è questo: per sconfiggere l’avanzata dell’Isis in Levante si sta andando verso l’intervento armato, forse anche via terra. D’altro canto proprio quell’intervento, che non potrà essere ‘pulito’, peggiorerà il fronte interno, rendendo endemica, nel medio periodo, l’affiliazione a forme di fondamentalismo islamico nelle periferie europee: di conseguenza le misure d’emergenza necessiteranno di un periodo ben più lungo che i tre mesi richiesti da Hollande. In sintesi: più rappresaglie, più jihadisti. Non intervenire, accoglie le richieste di Al-Baghdadi e fa forse salva l’ipocrisia europea, ma non migliora la stabilità della zona e lascia curdi, sciiti e una parte dei sunniti nelle mani dell’Isis. Non sembra esserci scampo. Una mano del diavolo, si direbbe a carte: un giocatore direbbe che conviene pensare a cosa tenere e cosa scartare tra le nostre categorie, a costo di ripercorre banalità.

L’Europa è fottuta, scriveva Sartre introducendo I dannati della terra di Fanon. Su quanto sia attuale l’inizio di quel testo e su quanto invece sia datato il prosieguo (la parola Islam non compare praticamente mai) avrebbe senso dibattere a lungo, ad esempio per fissarci in mente quanto di quello che accade è un’onda lunga della decolonizzazione. (Da tenere, con giudizio).

L’Europa è forse fottuta; lo è certamente se continua a pensare in maniera indifferenziata il mondo arabo (che vuol dire anche obliare le differenze tra gli affiliati iracheni e gli affiliati parigini, che possono avere obiettivi e interessi divergenti). Attenzione: è chiaro che la consapevolezza delle differenze è esplicitamente sbandierata da tutti, in particolare da coloro che si ergono a statisti che vogliono mostrare di aver studiato la lezione. Eppure, nel condurre i ragionamenti pare che non si riesca a tenere il punto fino alla fine; insomma, dovremmo aver appreso da tempo che il mondo arabo è attore plurimo e consapevole, invece questa constatazione è continuamente minata da innumerevoli fallacie quando si tratta di affermarla nel nostro dibattito. Succede alla destra, nelle sue spericolate equiparazioni tra terroristi-islamici-migranti; ma anche, in forma diversa, a chi dissolve le specificità di quel che accade in Medio Oriente nel più vasto campo dell’opposizione anticolonialista e anticapitalista.

C’è da difendere un approccio che rifiuti l’orientalismo (l’idea che l’Oriente agisca seguendo determinate, immutabili caratteristiche) come pure l’integrale attribuzione delle colpe all’Occidente. Non perché non ci sia quella colpa, o perché in quello che sta accadendo non pesi la politica occidentale e la sua ipocrisia oppure ancora perché si vuole sottovalutare la geopolitica; sono tutti aspetti che bisogna avere chiari anche per evitare di ripercorrere il disastroso percorso che ci ha portati sin qui. Ma – dico un ovvietà – pensare che tutto dipenda dall’Occidente, escludendo movenze, capacità, speranze agli attori arabi, è la forma più subdola di pensiero colonialista. Chi legge il Medio Oriente come un gioco di pedine manovrate dai più disparati attori occidentali, quasi mai si accorge di negare all’altro finanche un’autonoma soggettività (per dirlo più crudamente, i rabdomanti dei  complotti e gli improvvisati geopolitici della rotte del petrolio sono inconsapevolmente una spanna più razzisti degli altri, e spesso i più meravigliosi apologeti, loro malgrado, dell’onnipotenza occidentale di contro a una strutturale impotenza araba). Scartare, scartare.

L’Europa è fottuta anche se considera i terroristi dei pazzi irrazionali, senza consapevolezza e lucidità. Il terrorismo funziona, specie in Occidente, e chi sceglie quell’arma la sceglie per questo: un commando di 8 persone in Siria cambia poco, e a Parigi smuove le cancellerie internazionali e le abitudini del quotidiano, porta una pubblicità globale e duratura. L’autodifesa contro l’orrore e il fatto di esserci distaccati (con estremo sforzo) dall’orizzonte del sacrificio delle vita come arma (scriveva Sofri su Repubblica della nostra «lentissima conquista della riluttanza e della ripugnanza verso il sacrificio umano»), può scusare solo in parte la nostra difficoltà a ricondurre quelle scelte a razionalità. Vi è un ulteriore motivo per fuggire questa semplificazione. L’unione sacra in Occidente ha in ogni caso già raggiunto la soglia che gli serve; non c’è bisogno di «deumanizzare» ulteriormente i terroristi perché la gente li odi (o  perché l’Occidente accetti una stretta securitaria). «Mostrificandoli» lungo questo crinale si perde la capacità di capirli, e dunque di prevederli, e prevenirli. Il tradeoff di questa strategia retorica è negativo. Scartare.

L’età: una strage di giovani, perpetrata da sicari ancor più giovani. 1984, 1987, 1987, 1990, 1995 sono le date di nascita degli attentatori. Quando c’è stato l’11 settembre il più grande aveva 17 anni, il più piccolo 6; nessuno di questi era maggiorenne. Questo semplice dato anagrafico dovrebbe metterci quantomeno mettere in guardia dall’evocare le letture della Fallaci: sono cambiati i potenti del mondo, e sono cambiate anche le generazioni di terroristi. Già è scivoloso leggere l’Isis con gli occhiali con cui leggevamo AlQaeda. E la Fallaci a suo tempo parlava di Bin Laden avendo in mente il mondo islamico degli anni’80. Gli attentatori di oggi li capiscono di più i registi delle banlieu che l’intervistatrice di Khomeini. (A proposito di Kassovitz. L’odio incendia velocemente ma si sprigiona a lungo: è il ventennale del film La Haine, che è certo datato, ma è invecchiato molto meglio delle analisi geopolitiche dell’epoca. Tenere).

Eppure la cronologia è importante. C’è una profonda stupidità, talvolta disonesta, nella rappresentazione monolitica del Medio Oriente; ma forse l’errore maggiore è considerare il mondo arabo una realtà astorica, fuori dal tempo, senza sviluppi o mutamenti. Ancora banalità, eppure senza andare troppo lontano, solo fino a pochi decenni fa quel mondo stava ancora sperimentando e cogliendo i frutti della propria Rinascita / Riforma (Al-Nahda): cultura, religione e società si erano laicizzate, con importanti risultati, a volte inaspettati. Il diritto delle donne siriane al voto, ad esempio, è stato acquisito sostanzialmente in contemporanea con quello delle donne francesi. Non è solo un caso che la battaglia stia impazzando verso l’ultimo moncherino del baathismo (il che è una constatazione, non un supporto verso Assad).

L’Al-Nahda  è un tema controverso, ma da cui forse converrebbe ripartire, per gli arabi e per le seconde generazioni in Europa,  (cui l’assimilazione toglie un elemento identitario, e non per tutti è un processo indolore) . L’astoricità è infatti un errore che fa principalmente il gioco dei fondamentalisti, perché ne avalla la loro lettura della storia, che vagheggia un’Islam eterno, con una sua epoca d’oro verso cui tornare, seguita e preceduta da cicli di decadenza (abbiamo già dimenticato che lo spregio verso Palmira è l’odio verso la storia non sacra?). Il fatto che il bilancio di Al-Nahda sia chiaroscurale e che in fin dei conti si sia trattato di una sconfitta è un dato indeludibile, ma non autorizza a pensare che doveva andare così, e che sarà per sempre così. Non si tratta ovviamente di ricreare artificiosamente delle ideologie, ma di ripristinare un fattore speranza: non seguire le orme del passato, ma  vedere che la storia aveva altre possibilità. Se la scelta è tra il dominio occidentale (mascherato o meno, e col suo contorno di bombe) e fondamentalismo, non se ne esce; inserire altre opzioni non è semplice, ma senza il baluginio di una luce in fondo al tunnel non si intraprendono percorsi. Le responsabilità della sconfitta di Al-Nahda sono arabe e occidentali al tempo stesso; in ogni caso è da questa sconfitta che bisogna partire, per il semplice motivo che quello che accade è sì la conseguenza dell’invasione irachena (che purtroppo non possiamo cambiare), ma anche l’ultimo colpo di frusta contro quella modernizzazione laica che aveva percorso il mondo arabo. Un colpo di frusta antioccidentale, oltre per fin troppo evidenti motivi geopolitici, perché quella modernizzazione era sotto il segno dell’Occidente; allo stesso tempo – non casualmente – contro gli Stati-nazione, perché il nazionalismo era uno dei tratti rilevanti della proposta politica nata da Al-Nahda. (Insomma, tenere con giudizio).

Anche per questo è sbagliato ripetere che quanto accade deve essere ricondotto al piano religioso. E’ perché la modernizzazione laica filo occidentale ha fallito sul piano delle istituzioni (e contemporaneamente è fallito anche l’orizzonte delle Rivoluzione anticapitalista) che l’unica risposta politica rimasta in piedi è stata quella dell’Islam politico. Dire che il problema non è religioso, ma politico, vuole inoltre indicare la direzione della soluzione, che dovrà essere politica. Se privilegiamo il fattore religioso, possiamo solo sterilizzare il spiritualità, lottare contro il culto, combattere le identità: sono risposte sensate? E, soprattutto sufficienti? La lotta contro il risentimento, e per la speranza, la lotta contro la diseguaglianza e per le opportunità, sono armi migliori, a Parigi, come a Beirut, se, e quando, si riuscirà a rientrare dall’emergenza.

Alcune di queste cose le diceva Samir Kassir, l’intellettuale laico libanese ucciso nel 2005. L’anno precedente aveva scritto L’infelicità araba, un pamphlet sulle contraddizioni in cui si dibatteva il Medio Oriente. Quello che colpiva allora, e che colpisce oggi, è la lettura di un quadro geopolitco in termini di felicità / infelicità. Una mossa apparentemente naïf, eppure profondamente giusta, che aiuta a scardinare le false dicotomie che si affastellano in questi giorni.  La firma in calce porta scritto Parigi-Beirut: tenere, non scartare, per quando i civili torneranno ad avere la mano.

TAG:
CAT: Parigi, Questione islamica

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