Il testo della lettera che il Presidente del Consiglio, On. Giorgia Meloni, ha inviato al direttore del Corriere della sera e che il quotidiano pubblica oggi, ovvero il testo che si confronta con il valore, il significato e la memoria del 25 aprile è un testo che segna un momento pubblico. Non so se segnerà per davvero un passaggio irreversibile.
Non è in discussione la sincerità o meno di quel testo. In ogni caso questa mia riflessione non ha né lo scopo né la funzione di scavare in un’indagine privata, psicologica o caratteriale di un testo. Mi limito a considerarlo per quello che credo nelle intenzioni di chi lo ha scritto e firmato, voglia rappresentare un modo di fare i conti con il proprio rapporto inquieto, o non risolto con un passato.
Premessa: in quel testo il Presidente del Consiglio nel suo ruolo prima di tutto di segretario del suo partito, Fratelli d’Italia, propone una riflessione che certamente entrerà o si proporrà come il passaggio definitivo tra un silenzio e un’affermazione pubblica. E del resto si potrebbe osservare ci sono dei momenti in cui una personalità politica pubblica non può sottrarsi, pena il fatto di rimanere prigioniera di un gesto non compiuto.
Dunque che quel gesto andasse compiuto, o, almeno, che un segnale andasse lanciato si potrebbe dire era “nell’aria” e in qualche modo occorreva che l’appello o il «caldo invito» che Gianfranco Fini aveva pubblicamente lanciato domenica scorsa dalla scrivania di Lucia Annunziata non poteva rimanere senza risposta, pena il fatto di ridare di nuovo a Gianfranco Fini un ruolo nella scena pubblica.
Dunque in prima stanza si potrebbe osservare come questo testo parli ai propri, prima ancora che al Paese. Ma appunto perché parla ai propri è ai propri che andava tenuto. Cosa significa?
Che al netto della profondità o meno del bilancio che il Presidente del Consiglio, e Segretario di Fratelli d’Italia, svolge sulle pagine del “Corriere della sera”, quel testo (prima ancora di valutare le parole) deve trovare una sede di partito – ovviamente ufficiale e non in una qualche sezione persa nella penisola – in cui diviene non solo e non tanto testo pubblico e condiviso, ma è testo discusso.
Ovvero testo discusso pubblicamente. Uno spazio in cui manifestatamente, pubblicamente e auspicabilmente senza barocchismi linguistici, o doppi sensi, parole furbe o ammiccamenti, si fa un confronto politico e culturale (anzi meglio di cultura politica), su cosa implichi dire parole (ammesso che le si voglia acquisire come parte del proprio vocabolario politico), che cosa trascini con sé l’apertura di quel percorso, a quali lidi approdi.
Una lettera pubblica ha indubbiamente un valore, ma non è un passaggio politico di un gruppo dirigente. È un gesto. Sicuramente ha l’effetto di far parlare molto di sé, ma è estetica. La politica se rimane estetica rischia di essere un dato autocelebrativo, e non riflessivo, anche quando quel gesto si presenta come «scomodo».
Sia chiaro: fare chiarezza sul bagaglio di idee, di simboli, che hanno definito il proprio percorso di formazione, in breve riflettere pubblicamente e criticamente su se stessi non è mai facile. Ma il problema non è la difficoltà. Il problema è che fare i conti con il passato, con il proprio passato (se non biografico, almeno e soprattutto culturale che si eredita e di cui si è stati orgogliosi) non è mai un percorso comodo.
Il problema, tuttavia, non è la comodità. Il problema è che quel percorso non lo si risolve in una mossa, lo si affronta aprendo un percorso che parla prima di tutto al proprio mondo, mentre rende pubblico anche agli altri il senso di quel percorso.
Questo per dire che una lettera pubblica ha un segno, ma non impegna nessuno, fuorché chi la firma. In politica, soprattutto quando si è dirigenti rischia di non essere nulla, o di essere corretti da molti passi indietro o di lato che alla fine hanno la funzione di annacquare quello che originariamente si è detto, o di occultarlo. Comunque di rimuoverlo o di accompagnarlo elegantemente alla porta.