L’Europa e le sue istituzioni, le sue regole, le sue fatiche, la sua forza e le sue contraddizioni. Sempre là si torna. Anzi, da là si riparte e di là non si esce. La nettezza e ineluttabilità di questo perimetro si manifesta con più chiarezza ogni volta che, al governo, c’è qualcuno che – più o meno accesamente, in un passato più o meno recente – ha manifestato scetticismo rispetto al progetto europeo e alle sue regole. Il contesto diventa ancora più chiaro e stringente quando ci sono di mezzo impegni da prendere a stretto giro, promesse da mantenere, concessioni da ottenere, soldi da incassare, e quando qualunque decisione di un governo nazionale condizionerà gli altri paesi membri, oltre che il proprio futuro.
È questa, evidentemente, la situazione italiana di questo momento, e vale la pena di rimettere in fila i punti chiave: fare il solito esercizio di ordine nel presente, per quando – sempre troppo presto – la memoria scarseggerà.
Sul tavolo, in queste settimane e nelle prossime, ci sono quattro questioni importanti. La prima è la riforma del Trattato di Dublino, trattato europeo che definisce “i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide”. L’Italia si è trovata fuori asse rispetto agli alleati politici della premier, ungheresi e polacchi su tutti, e se ha ottenuto qualcosa in materia di redistribuzione dei migranti lo deve a Macron. La seconda è la ratifica del nuovo MES, cioè del Meccanismo Europeo di Stabilità, “che è stato istituito mediante un trattato intergovernativo, cioè al di fuori del quadro giuridico della UE, nel 2012. La sua funzione fondamentale è concedere, sotto precise condizioni, assistenza finanziaria ai paesi membri che – pur avendo un debito pubblico sostenibile – trovino temporanee difficoltà nel finanziarsi sul mercato”. Il MES è ormai uno storico campo di battaglia: ai tempi di Conte, c’era Renzi che passava il tempo a chiedere di accedere a quei fondi, con tutte le conseguenze di indebolimento della nostra immagine nazionale – non esattamente eccellente – che ciò avrebbe comportato. Oggi si parla solo di ratificare una serie di modifiche al trattato, non di prendere quei soldi, ma le forze (ex) sovraniste fanno del loro no un punto di orgoglio, e di trattativa. La terza è la riforma del Patto di Stabilità europeo, cioè dello strumento fondamentale che regola il rapporto tra finanze nazionali e quadro europeo. La proposta avanzata dalla Commissione è stata contestata dai tedeschi, prima a livello politico e poi dalla loro corte costituzionale. L’Italia sta sempre, per definizione, dal lato di chi chiede meno vincoli e meno rigore, e la proposta finale di riforma, dopo altre discussioni e modifiche, dovrà essere definitivamente approvata entro la fine dell’anno, e giusto in tempo per finire sul tavolo della prossima campagna elettorale per le elezioni europee. Infine, quarta e ultima, certo non poco importante, è la questione del PNRR. Federico Fubini sul Corriere ha spiegato con precisione quale sia l’intoppo tecnico per cui l’ultima consistente rata di finanziamento, pur spettante all’Italia, non sia ancora arrivata. Qualcuno non ha fatto quel che aveva promesso, e/o qualcuno non ha detto il vero: cose italiche, si sa. Per una sintesi sugli intrecci tra le varie partite, sempre sulle stesse colonne, merita invece una lettura l’editoriale di Lucrezia Reichlin. Sono, con tutta evidenza, partite vitali e complicate per il futuro dell’Europa e di un paese grande e però fragile, come il nostro. La postura della politica italiana in generale, e della presidente del Consiglio in particolare, meritano in proposito di essere osservate da vicino. A partire da una delle rare comunicazioni istituzionali che Meloni ha accettato di rendere nella sede propria, cioè il parlamento.
Se avete un po’ di tempo, questo video merita di essere guardato con calma, con occhi laici. Io ho provato a farlo, per quanto autocertificare la propria laicità e il proprio distacco sia sempre difficile. Colpiscono alcune cose. Meloni, come noto, e a differenza di diversi suoi colleghi maschi, compagni di area politica e avversari nella lotta al consenso, si prepara. Studia. Prende molti appunti. Si fida relativamente della battuta e dell’oratoria, pur allenata in decenni di comizi e tafferugli verbali, e molto della necessità di avere tutto sotto controllo. Non ha paura di citare gli indicatori un tempo avversati – ad esempio lo spread – come prova provata del fatto che sta andando tutto meglio, e naturalmente non teme l’iperbole propagandistica – “siamo il paese che cresce di più in Europa” – mentre a ogni passo condanna le propagande degli avversari. Padroneggia bene il tono da comizio, e meno quello dell’istituzione, ma insomma, i buoi sono scappati da un pezzo, e non è certo colpa di Giorgia. Non c’è mai modo di chiederle, tuttavia, come mai avesse scelto come alleato-modello Orban che per definizione è un avversario dell’Italia e degli interessi italiani in tema di immigrazione dalle coste africane. Non c’è mai modo di interloquire direttamente e a caldo, con lei, sulla vera strategia che sta guidando l’italia sul MES. Non lo ratificheremo a prescindere? Lo faremo solo in cambio di concessioni sul Patto di Stabilità? Cosa unisce e divide lei dall’alleato Salvini? Ci sono questioni di fondo che non convincono chi governa, o è tutta tattica, negoziazione, misurazione degli attributi con alleati maschi e di tradizione partitica solidamente machista? Anche qui, per essere onesti, va detto che non è che quando governavano gli altri queste domande si potessero fare. Sono gli stessi buoi in fuga di qualche riga fa. E tuttavia, visto che Meloni era esponente di un’opposizione che proprio queste ipocrisie e questi silenzi lamentava con grande forza, sarebbe bello poter essere, per lei e il suo governo, la voce critica che lei fu in passato. Sarebbe bello poterlo essere in maniera più credibile di quanto è concesso a chi oggi si oppone, e fino a ieri governava.
Tra le domande che non si potranno fare, per ora, un posto speciale ce l’hanno quelle che abbiamo pensato tutti per Daniela Santanchè e per chi l’ha voluta al governo. Qui potete leggere un ultimo aggiornamento sui destini, non proprio luminosissimi, della Daniela imprenditrice. Qualcosa ci dovrebbe raccontare anche lei, sempre dal parlamento, nei prossimi giorni, ma senza domande. Non sia mai. L’imprenditrice Santanchè, invero, non è nuova a dubbi, discussioni, lamentele, doglianze, anche da parte di chi ha lavorato per lei. L’imprenditrice Santanchè, a monte, lavora soprattutto nel campo turistico, ed è ministra del turismo: a tacere di tutto, qualche buona ragione per dubitare c’era da prima. Ma ovviamente nessuno ha potuto farne una questione di principio, da subito, nè con lei nè con la sua capa di partito e di governo. Ci appelliamo allora alla stessa Giorgia Meloni che, indignatissima, alla fine del video che trovate qui sopra, ha spiegato – giustamente – che combattere contro le dittature è il sale della vita, salvo poi citare gli eroi Falcone e Borsellino e non gli eroi del 25 Aprile (la mafia è uno schifo, ma non è una dittatura; il fascismo era uno schifo, ed era anche una dittatura, ma amen). Ecco, a quella Giorgia Meloni che – ripetiamo, giustamente – difende il diritto degli ucraini a essere aiutati, ricordiamo tuttavia che poter fare domande a lei sulla sua strategia politica, a lei e ai suoi colleghi sulla loro onestà, è esattamente il sale della democrazia e il contrario delle dittature. Non sono mai stato uno che pensa che esista un pericolo fascista nè che lo incarni Meloni col suo governo. Però, insomma, visto che è così indignata contro chi non capisce il valore della libertà, lasci a noi la libertà di chiedere e capire. Sono diritti fondativi, scritti in una Costituzione scritta da chi ha combattuto e vinto una dittatura.
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