La patetica illusione di rifarsi una verginità nei minuti di recupero

14 Luglio 2022

C’è qualcosa di atavico, come un istinto primordiale del tutto disconnesso dall’evoluzione della propria specie, in questa quasi crisi di governo che sta(rebbe) per essere scatenata dal Movimento 5 Stelle. È come una nostalgia per la propria terra d’origine, per la patria in cui si è forgiata l’anima di un popolo: una patria che sembrava seppellita e dimenticata e, di colpo, torna a chiamare forte, a chiedere ai suoi figli di tornare a casa. Solo che quei figli sono lontani, e quella patria è misconosciuta, sepolta, troppe volte tradita. Eppure il suo richiamo è così forte – o lo sembra, almeno – che a nulla valgono le considerazioni razionali che sconsigliano un viaggio di ritorno ormai impossibile.

Eppure, le considerazioni razionali meritano egualmente di essere messe in fila: non che ci sia speranza di farle valere, per carità, ma almeno non si dica che tutto il mondo ci ha rinunciato, stretto com’è tra gli istinti atavici di chi ha nostalgia millenaria per una terra mitica che non è mai esistita e il cinismo politicista di analisti e colleghi che hanno dimenticato da altrettanti millenni che la politica è provare a rappresentare con pazienza i desideri e gli interessi di un popolo che vota. E insomma, nel casino di un’estate tardo-pandemica, di piena inflazione, di giovane guerra quasi europea, a meno di un anno (per stare larghi) dalla data naturale delle prossime elezioni politiche, con la recessione come unica certezza, il Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte fa sapere che uscirà dall’aula e non voterà la fiducia al governo Draghi sul decreto aiuti. Lasciamo ai creduloni di tutte le fazioni di credere che il merito del provvedimento sia la ragione per cui questa decisione sia maturata. Lasciamo ad altri creduloni di pensare che ci sia, in questa decisione, una manovra di potenze straniere o la longa manus di Putin. A entrambi ricordiamo che tra pochi mesi, comunque, si tornerà a votare, perché lo dice la Costituzione italiana.

Personalmente, preferisco sempre attenermi a quel che si vede adesso e si è visto nel recente passato. Chi decide lo strappo – Conte e quel che resta del Movimento fondato da Grillo e Casaleggio – ha gia ampiamente dimostrato di non avere pregiudiziali ideologiche così solide su nulla. Se ai primi di agosto di un anno da poco passato firmi il Decreto Salvini e meno di tre settimane dopo sfanculi Salvini in mondo visione vuol dire che, in sostanza, puoi dire e fare tutto e il suo contratio. Questa è stata la forza della leadership di Giuseppe Conte e anche, con tutta evidenza, la sua principale debolezza. Del corpaccione di parlamentari grillini, del peso specifico che sul fragile capo e sui suoi terminali nervosi dotati di seggio alla camera e al senato esercitano soggetti ben diversi tra loro – almeno in teoria – come Rocco Casalino o Marco Travaglio, potremmo anche discettare a lungo. Ma poco cambierebbe: parliamo di un corpo inerte, che ha perso la connessione sentimentale col popolo che li aveva plebiscitati appena quttro anni fa. E che quindi è nelle mani di un destino che è già stato molto generoso, e non può non riconoscerlo nemmeno chi ha fondato la propria professione sul vittimismo.

Il resto della storia lo scrive una malattia che il Movimento 5 Stelle coltiva, in ottima compagnia, con l’intero sistema politico e di analisti che del sistema politico sono, di fatto, ufficiali di complemento. È la malattia della disconnessione dalla realtà, che nel caso del Movimento oggi guidato da Conte fa particolarmente impressione, perchè la missione dichiarata e incarnata da quello stesso Movimento è stata la capacità di essere la realtà di un paese e di una società che entra nel palazzo senza nemmeno bisogno di mediazione. Era la missione fondativa, quel “uno vale uno” molte volte stigmatizzato come manifesto dell’incompetenza elevata a sistema, e che invece voleva rappresentare l’idea di un ritorno alle basi della democrazia rappresentativa in cui il voto di ogni cittadino/a vale come quello di un altro/a. E invece, pochi anni a far politica bastano a perdere l’orizzonte del mondo, quando non si sa perchè si fa politica, a tal punto da credere che basti fare casino a fine legislatura, per ragioni in fondo incomprensibili al popolo, per riconquistare quella connessione sentimentale che invece è perduta da tempo.

È questo, se vogliamo, il fraintendimento più grave e imperdonabile di Conte e dei suoi. Di chi lo consiglia e di chi lo segue. Il credere che rompere con Draghi, in modo politicista, dopo aver deciso politicisticamente di sostenerlo, dopo aver politicisticamente fatto nascere il governo giallorosso come conseguenza dialettica del governo gialloverde, possa valere la riconquista di un posto dignitoso nell’anima di un pezzo di Italia dimenticata, remota, non coltivata da tempo immemore e refrattaria a sua volta – non sempre incolpevolmente – a ogni complessità. No, non funziona così.  Gli italiani saranno anche sempliciotti e gonzi, ma non così tanto da dimenticare la storia di questi pochi mesi. Il racconto di un Movimento vittima dei poteri forti convincerà pochi, come il suo contrario che lo vuole invece manovrato da Putin e dai cinesi. Tutto finirà come deve, e – crisi o no, perchè qui finchè non la vediamo arrivare non ci crediamo – tornerà dalle parti del niente in cui risiedeva poco più di dieci anni fa. Sarà stata solo un’illusione, ma non l’ultima: la prossima ha le fattezze della promessa che la sconfitta di questi populisti sia anche la sconfitta del populismo.
Un po’ di realismo ci aiuterebbe a dubitare, una volta di più, della propria speranza: quasi mai coincide con il futuro.

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CAT: Partiti e politici

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