Perfino a lui è accaduto questa volta quel che succede a tutti: cioè di morire. Solo il finale umano normalizza la parabola tecnicamente straordinaria di un uomo che prima di fare la storia del nostro paese ne è stata l’incarnazione, quasi l’archetipo degli elementi antropologici, sociali e solo dopo politici che hanno costruito quest’epoca: un tempo lungo che, dal finire del Novecento, ci ha portato in questo futuro che, non a caso, non riesce a iniziare. Proprio in questo simbiotico e contraddittorio rapporto tra passato e futuro, tra modelli classici, atavici, spesso arcaici e una contemporaneità spinta che conosce solo l’istante – e il più importante è sempre il prossimo – sta un elemento di sintesi forte, tra i molti possibili, che può aiutare a capire e correttamente ricordare l’uomo e il politico Silvio Berlusconi. E il paese che, per anni e altri anni ancora, si misurerà con un’eredità più grande di quella, impossibile da raccogliere per altri, del partito da lui fondato. E più vasta, perfino, dello smisurato patrimonio che l’imprenditore lascia agli eredi e, su gambe scricchiolanti e un destino da riscrivere, al paese e ai mercati. Ripercorrere un’epopea umana, imprenditoriale e politica dall’inizio, con le mille luci abbaglianti e le diecimila zone d’ombra più cupa, sarebbe impossibile. Eppure è necessario provare a fissare qualche fotografia che, arrivando dal tempo che fu, illumina chi siamo e cosa possiamo diventare. È anche una questione etica generazionale, oltre che di dovere professionale, per noi che c’eravamo.
L’alba dei primordi sorge a Milano, nel 1936. Il “suo” quartiere era l’Isola, la “sua” casa era quella di nonna, in via Volturno. Lo raccontò lui, proprio a noi, di questo giornale, alla vigilia del suo ottantesimo compleanno e di un delicato intervento cardiochirurgico che lo aspettava negli Stati Uniti. Un’infanzia normale e umile, in una Milano bombardata e poi liberata. Una memoria impreziosita da qualche ricordo meno verificabile, come quelli che affidò a un paese ancora anticomunista, nel 1994, anno della discesa in campo, dopo che il comunismo era finito perfino a Mosca, sul fatto che a 11 anni era stato impegnato ad attacchinare perché il futuro delle prime elezioni democratiche, quelle del 1948, fosse affidato all’atlantismo di De Gasperi e non ai comunisti filosovietici di Togliatti. Ma quell’esito politico è l’inizio di una storia, ma anche il punto di maturità di un’altra. Quella che inizia, appunto, nella Milano del 1936, ed esplode come “vicenda pubblica” nel mezzo degli anni Settanta, quando nel pieno del decennio più politico della storia del Dopoguerra c’è un quarantenne aspirante imprenditore edile che sembra vedere gli anni Ottanta dietro l’angolo, o ricordarsi con precoce nostalgia i fasti del boom di due decenni prima.
Nella fotografia di Alberto Roveri, per L’Espresso, si fa ritrarre con una pistola sul tavolo. Sono gli anni del terrorismo, ma anche quelli dei sequestri. Gli anni in cui un amico del cuore del non ancora Cavaliere, Marcello Dell’Utri, gli procurava la collaborazione “domestica” dello stalliere Vittorio Mangano, uomo di Cosa Nostra, pluriomicida, che Paolo Borsellino individuò come una degli emissari della Mafia siciliana alla conquista del Nord. Di quella relazione evidentemente sconveniente e pericolosa hanno scritto magistrati e giornalisti specializzati. Ma nello scorrere l’album di famiglia della storia dell’Italia, si vede, insieme, la ferocia primordiale della mafia e del suo controllo del territorio d’origine, da un lato, e l’intuizione moderna di chi voleva portare capitali dove si potevano riciclare e spendere. Dove, tra banche e mattone, qualcuno poteva farli fruttare. Le prime operazioni del resto Silvio le fa con i soldi di Banca Rasini, nella quale lavorava come funzionario il padre. Una piccola banca dal sistema di relazioni forte, che tra i clienti aveva anche nomi brutti come quelli del gotha della mafia. Ma questa è fino a prova contraria una coincidenza: più difficile immaginare invece che Mangano e Dell’Utri siano un caso.
Poi c’è la politica. Che per Silvio comincia un bel pezzo prima di iniziare a farla. Ancora una volta la sua capitale è Milano. Ancora una volta, una Milano che innova i modelli e i rituali, che recepisce prima gli umori di una società che cambia. Quegli umori di ambizione e voglia di libertà che hanno i modi decisi, spicci, arroganti, di Bettino Craxi. Che sa la spregiudicatezza di chi infila mazzette di soldi nelle ceste di Natale per i tecnici comunali dell’hinterland che devono dare i permessi a costruire, per dire una radice di un male. Ma che conosce anche l’insopportabile distanza dalla realtà di chi, come Berlinguer, predica l’austherity – la decrescita, avremmo detto poi – a un popolo che viene da secoli di fame, e non capisce perchè il suo turno, per un pezzetto di agognato boom economico, non deve arrivare proprio mai. Tra Silvio e Bettino c’è la comunanza di interessi, certo, la Legge Mammì che consente a Berlusconi di uscire dal buco del piccolo network di televisioni locali per sfidare con successo la palude Rai, che anche a colori sembra ancora in biancoenero. Ma c’è il collante dell’antropologia e della psicologia: le notti lunghe di Milano, le donne, l’ambizione che non conosce un limite fino a sopra il cielo. E poi gli stessi avversari, ancora una volta antropologici, prima che politici. I celeberrimi “comunisti”, che non a caso entrambi tennero retoricamente in vita anche quando il comunismo era finito nella Storia, perchè era troppo importante per la loro, di storia. Il Craxi che non vide – a ragione – una possibile unità delle sinistre con il Berlinguer degli anni ‘80 è lo stesso che, con meno ragioni, fatica a considerare un dialogo con gli ex comunisti dopo la Caduta del Muro di Berlino. Non si fidava di loro, o non si fidava della capacità di ridisegnare un’identità socialista democratica in assenza di un grande nemico a sinistra? Berlusconi, quando fu il suo turno, non ebbe dubbi: molti studi politici in meno, e molta conoscenza in più degli umori di un paese che aveva assecondato e insieme costruito nei suoi immaginari di massa, lo consigliarono di non avere tentennamenti. La discesa in campo fu in nome di un anticomunismo anni ’60 senza troppe crepe, portando a casa qualche fulgida intelligenza che nelle file comuniste si era formata, da Lucio Colletti a Giuliano Ferrara. L’importante è che il gatto prenda il topo, come diceva peraltro Mao Tse Tung. Ancora una volta, insieme, il passato di un nemico non più davvero minaccioso a fare da base del discorso pubblico e delle scelte, capace però di diventare lingua di un tempo che verrà: senza partiti, senza rituali della politica, senza mediazioni.
Prima, molto prima, eppure non davvero altrove, sta il successo più iconico e incontrovertibile di Silvio Berlusconi, ed è la storia del Milan. Nobile decaduta del calcio mondiale, reduce da un decennio amaro, senza vittorie, con due retrocessioni in Serie B e un fallimento societario sulle spalle di un imprenditore all’italiana che sembra una caricatura, Giussi Farina, all’improvviso – invero, dopo lunghi rumors – spunta Silvio Berlusconi. Fa finta di entrare pian piano, ma in realtà è un ciclone e un uragano. Chiude la porta alla grande storia del Milan che fu, ed estromette da ogni carica societaria addirittura Gianni Rivera, il più grande calciatore italiano di tutti i tempi e la storica bandiera della squadra che è diventata un mito in Europa e nel mondo. Se lo troverà davanti, peraltro, alle elezioni politiche del 1994, candidato dal centrosinistra nel collegio di Milano centro: e lo tratterà con gli stessi riguardi usatigli un decennio prima nella sede del Milan.
Perchè Berlusconi, che dovette ammetterre in tarda età di essere stato un giovane interista, compra il Milan? Perchè sa, dal cuore del Novecento italiano, che essere padrone di una grande squadra aiuta a costruire i galloni che assimilano all’alta società per nascita. Gli Agnelli che lo guardano da sempre come un insetto che mette scarpe sgraziate, ma anche i Moratti che hanno costruito – prima e dopo – gli unici due episodi di vera grandezza internazionale dell’Internazionale. Ma c’è sicuramente anche dell’altro. C’è la smisurata ambizione di un uomo che sa di poter contare su patrimonio, energia, spregiudicatezza infinite: e su un’ambizione ancora più grande. Vincere tutto, per essere ammirato dal mondo intero, e amato alla follia da un popolo di tifosi. Per coincidenza, forse non per caso, il Milan ha la storia popolare più ampia e radicata, è la squadra dei casciavit, della gente che fa lavori umili. C’era già un progetto politico? Chissà. Forse c’era l’idea di “tenersi pronti”, e l’intuizione – distruttiva? geniale? inevitabile? ditelo voi – che in un giorno non lontano il consenso non sarebbe più stato trasmesso dalle sezioni di partito, dai sindacati, e neanche nelle polverose tribune politiche di vecchio conio. No, tutto sarebbe successo principalmente altrove: allo stadio ammirando la più innovativa squadra di calcio di tutti i tempi. Davanti alla Tv, mentre il Drive In sbatteva in faccia a un popolo anticamente morigerato, o stabilmente represso, i pensieri e i colori che appena un decennio prima sarebbero stati materia da confessionale o, al massimo, da pensosa riflessione di analisi.
Già. le donne. Il senso di Silvio per le donne. Giustamente, e incontrovertibilmente fondata dalle storie emerse nei processi penali e non solo, si è consolidata l’idea di un rapporto solidamente maschilista tra il mondo berlusconiano e il mondo femminile. Al di là della rilevanza penale di alcune vicende, restano le voci di Nicole Minetti e delle ragazze portate a Roma da Tarantini. Storie avvilenti, che non possono non lasciare il segno. Un segno, però, che va letto tutto: l’elettorato femminile è stato, per decenni, e proprio fino agli scandali del 2011, un elettorato fortissimo, per il centrodestra berlusconiano e per lui in particolare. E ancora: quante donne che fanno politica con successo, che sono sopravvissute più o meno felicemente alla fine del berlusconismo politico, devono alla fiducia di Silvio Berlusconi l’inizio di una carriera meritatamente fortunata? Ci sono le figlie predilette poi reiette, Gelmini o Carfagna. Ma nel novero, pur venendo da un’altra famiglia, non può mancare certamente Giorgia Meloni, ministra trentenne nel 2008. Le mie amiche femministe mi dicono sempre – e hanno ragione, senz’altro – che è un ragionamento semplicistico, che dimentica che la storia la fa quel che si fa, non solo chi si è. È senz’altro vero. Mi piace applicare lo stesso ragionamento, in forma di domanda, quando parliamo dei partiti di sinistra, di molte carriere. Così, per vedere l’effetto che fa, ovviamente usando lo stesso rigore e la stessa inflessibilità.
E la politica, questa lunga cavalcata egemonica iniziata nel 1994 e finita, almeno nella misura in cui si sosteneva sulla sua persona, sul suo corpo, sul suo potere carismatico, economico, materiale, in tutta questa storia, dov’è?
È ovunque, e quello che inizia nel 1993 con la fondazione di Forza Italia è insieme l’inizio di un percorso che stravolgerà rituali e spartiti del potere politico, e il terminale di un lungo cammino nelle case degli elettori italiani. Del secondo elemento abbiamo provato a dire qualcosa, per immagini sparse. Del primo, sempre per fotogrammi e frammenti, senza immaginare la pretesa impossibile di una completezza – alla quale potranno contribuire lavori giornalistici, sociologici, politologici, massmediologici, e di psicologia delle masse – possiamo provare a individuare i frammenti che, messi in fila, mostrano la filigrana di una storia. Quella che resterà nella memoria collettiva e nell’immaginario molto di più che nei palazzi della politica.
Quando annuncia la sua discesa in campo, a inizio del 1994, in vista delle prime elezioni politiche davvero figlie del “dopo” – dopo Tangentopoli, ma anche dopo la piena digestione della fine del comunismo – Eugenio Scalfari, direttore e fondatore di Repubblica, quotidiano di proprietà del suo acerrimo rivale in affari Carlo De Benedetti, gli dedica un editoriale sprezzante intitolato “scende in campo il Ragazzo Coccodè”. In questa storia ce ne sono molte. La sinistra intellettuale che sottovaluta da subito il fenomeno politico e sociale rappresentato da Silvio Berlusconi. Le questioni personali e di affari che si trascinerano per decenni, che sono tra le motivazioni forti alla discesa in campo di Berlusconi, da un lato, e delle profonde inimicizie che gli dedicano altri – De Benedetti, ma non solo -, dall’altro. Se ne ricorderà sempre Berlusconi, anche nel 1996, in quel dibatito televisivo che ha fatto la storia del costume politico italiano, quando a Prodi che gli rinfacciava la vendita de Il Giornale a suo fratello Paolo per aggirare i divieti antitrust rispose: “E a chi avrei dovuto venderlo, a De Benedetti?”. Non aveva specificato “al suo amico De Bendetti”, ma il senso era quello. C’era anche qui, e c’è sempre stata, la voglia di rendere esplicito e tutto personale, antropologico, uno scontro sempre frontale, contrappositivo: o con me, o contro di me. Fu da sempre il suo schema, e gli altri abboccarono, aiutandolo a sopravvivere oltre i tempi della storia, anche naturalmente aiutato dalla strutturale presenza dei suoi mezzi nelle case e nella testa degli italiani. Lui si inventò l’attualità della minaccia comunista mentre gli ex comunisti già si preparavano a votare privatizzazioni e liberalizzazioni, e parlò così alla pancia di un paese che del partito comunista più forte e intelligente di tutta Europa aveva avuto comprensibile paura per decenni. Le paure dei nonni diventarono quelle dei nipoti e a rafforzare la passione di questi ultimi ci pensò il resto: i trionfi del Milan, una televisione liberata dal grigiore di stato e riempita di ragazze discinte e di voglia di divertirsi. Mentre Ochetto e gli altri, pensosi, speravano di vincere grazie alle manette di Tangentopoli.
Forza Italia fu il primo partito leggero della storia, probabilmente non solo quella italiana. Chi c’era racconta di come, a fine 1993, i funzionari e i creativi di Publitalia venivano recultati per insegnare alle giovani MariestelleGelmini di tutto il regno a parlare in pubblico, a difendere i pochi concetti chiave. Il resto, dal punto di vista partitico, fu sempre poca cosa. Il partito era Lui, è stato lui fino a ieri, comandava Lui ed era lui a decidere chi deteneva il potere in suo nome, chi gli controllava la roba. Fino a quando non doveva passare di mano per qualche infedeltà, o perchè le nuove fedeltà di altri, di altre, si erano mostrate più solide. Citofonare a Licia Ronzulli, Mariastella Gelmini, Alessandro Cattaneo, Mariarosaria Rossi, e mille altri, altre, che allungherebbero solo i tempi di lettura di questo già non breve articolo, senza nulla aggiungere al concetto chiave. D’altronde, il partito era Lui, e i voti – tantissimi, sempre – tutti suoi. Furono abbastanza per tornare al governo nel 2001, dopo aver ricomposto la frattura con quell’alleato bizzoso e geniale che era Umberto Bossi, e avendo accompagnato senza troppa fretta il cammino di democratizzazione della destra italiana guidata allora da Gianfranco Fini. Dopo averci lasciato le penne una volta, capisce che a Roma servono contromisure. L’avventura del 1994, finita in pochi mesi, ha bisogno di essere superata con saggezza. Affida il pallino dei rapporti coi palazzi romani a Gianni Letta, chiede una mano a Luigi Bisignani. Due figli politici di Giulio Andreotti. Il mito dell’imprenditore che aggiusterà l’Italia senza fare politica lascia il posto a un approccio più tradizionale. Il calcio l’ha cambiato con Arrigo Sacchi, ma quella squadra probabilmente avrebbe vinto e convinto anche con Giovanni Trapattoni.
Alle elezioni del 2006 arriva che sembra spacciato. Tutti raccontano di un grande vantaggio per l’Unione guidata, ancora, da Romani Prodi. È un’ammucchiata informe, che tiene insieme Mastella e qualche veteroleninista, Emma Bonino e alcuni cattolici ultratradizionalisti. Tutto per fare meglio dell’enorme avversario. Tutto per non uscire dalla logica a lui più cara, quella manichea che spinge a mettersi o con lui o contro di lui. Sembra spacciato, dicevamo, ma le campagne elettorali son sempre state il suo forte. Ha il bagno di folla nel sangue, è per piacere al mondo che sta al mondo, a differenza di alcuni dei suoi più acuti e intelligenti avversari, che nello spiacere e nell’essere da pochi intelligenti compresi e apprezzati traggono il massimo godimento. A Vicenza inizia così, con le immagini che potete rivedere qui sotto, un’impresa incredibile, da manuale della comunicazione politica. Non vincerà per 24 mila voti, ma è una rimonta che vale una vittoria. Capisce, una volta di più, che l’anima profonda dell’Italia è con lui più di quanto la rappresentazione convenzionale delle élite riesca a comprendere. La sua rimonta fa nascere una maggioranza fragile, composita, che resiste solo grazie al voto dei senatori a vita. Getta dunque le basi per il più imponente trionfo della sua carriera politica, quello del 2008. Che sarà, tuttavia, anche l’ultimo.
Fa nascere, sul predellino di una macchina, in centro a Milano, il nuovo soggetto politico: Il Popolo della Libertà. Gianfranco Fini prima dice di no, sdegnato, poi torna all’ovile. Di lì a poco però la frattura tra i due si mostrerà insanabile, e la vita, le vite, vengono sempre prima della politica. Le elezioni sono un trionfo, pur avendo davanti l’esordio del Partito Democratico, guidato allora dal primo segretario Walter Veltroni, che tra le critiche di molti raggiunge tuttavia il proprio apice alla prima prova. Da quel 32% abbondante in poi, la curva sarà sempre discendente. Sembra l’inizio di una legislatura trionfale, è invece l’inizio della fine. Patrizia D’Addario, poi Ruby, poi i mercati che impennano lo spread, le pressioni della famiglia che ha paura che di mezzo ci vadano le aziende, le èlite che si prendono finalmente la loro rivincita, e affidano le chiavi del paese al governo lacrime e sangue di Mario Monti. Quando nel 2011 è costretto a dimettersi per interesse e opportunità, senza che nessuno davvero obietti sulla evidente poca democraticità di un processo tutto esogeno al parlamento, probabilmente in cuor suo ancora sogna di poterci tornare, a Palazzo Chigi. Le elezioni del 2013 sono però l’inizio di una nuova era. Nella quale Forza Italia conserva la forza e il carisma di un fondatore vecchio, sfiancato dagli avversari e dagli errori, da una senilità che accetta sempre di meno l’esistenza del limite, ma anche da una società che cambia. Che esplicita il populismo che lui ha sempre accarezzato, che accetta che il “vaffanculo” diventi una parola d’ordine, magari perfino un programma di governo. Quel che viene dopo è in fondo minutaglia: i vecchi amici che lo tradiscono dopo avergli spremuto le tasche e le agende; un partito mai nato che perde un pezzo dopo l’altro tutti gli ex fedelissimi; l’illusione di trovare un erede in Matteo Renzi, e entrambi sanno che non è cosa, per molte ragioni; le piccole truppe parlamentari che si assottigliano ma resistono, di elezioni in elezioni, e adesso chissà cosa succederà. Nel frattempo sono cambiate anche le geografie globali. Non ci sono più gli amici Bush e Blair, qualche amico controverso, come Gheddafi, ha fatto una brutta fine. Qualcun altro, come Putin, sta smettendo di essere la promessa di modernizzazione alla quale avevano creduto in tanti, non solo Silvio, e si sta avvicinando alla minaccia globale che pochi anni dopo sarà sotto gli occhi colpevoli di molti.
Berlusconi finisce di andarse, infine, mentre il suo centrodestra, proprio quello che aveva fondato e pensato lui, è al governo e, salvo schianti improvvisi e suicidi più o meno desiderati, è lì per restarci davvero. È uno schema politico che in Italia ha di fatto inventato lui, sdoganandolo, e affidando lo spazio ampio di quella società a giovani leader politici e politicisti meno visionari, geniali e ricchi di lui. Ma che sono veri professionisti della politica, di quelli che lui tanto criticava, a inizio carriera. Cosa succederà naturalmente nessuno lo sa, ed è davvero difficile pensare che Forza Italia possa sopravvivergli, almeno nel medio periodo. Resterà il ricordo, la traccia, di un’Italia lungamente inchiodata allo schema del Berlusconismo e dell’Antiberlusconismo, alla divisione netta tra chi sta da un lato e dall’altro per ragioni che ben prima della politica, o molto dopo di essa, riguardano l’antropologia e la psicologia delle masse e dei singoli. Tra le tante faglie, colse tra i primi quella di chi conosce un paese e la sua geografia, fatta di province che invecchiano, di modelli di successo che sono diventati solitudini. Anche in questo, forse anzitutto in questo Berlusconi c’è il genio anticipatore e insieme il paradosso della sua parabola politica. Un uomo che ha deciso il futuro nel calcio, nell’impresa televisiva, nell’immobiliare, e ovviamente nella politica è anche il vero anticipatore della nuova destra mondiale: quella che vince in nome della nostalgia, e della rabbia perchè gli anni belli sono alle spalle. Una contraddizione, una più: una sintesi geniale, un’altra ancora.
Ma del resto, nessuno può stupirsi di qualche contraddizione nell’arco di una vita, se una vita ha l’ampiezza e la dimensione della vita di Silvio Berlusconi.
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