Renzi farà un suo partito come Macron? Politologi e filosofi a confronto

26 Aprile 2018

Un PD macroniano. O un En Marche italiano che dice addio a un PD al governo con il M5S. In entrambi i casi, alla guida sempre lui, Matteo Renzi, per inciso uno dei politici europei che più avrebbe ispirato Macron nel corso della scalata all’Eliseo. Fantapolitica? Forse, ma i segnali non mancano. Dalla crescente insofferenza dei parlamentari renziani verso l’aperturismo del reggente Martina al M5S, alle riflessioni del sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega agli affari europei Gozi (che considera En Marche “riferimento per la ripresa del cammino del PD”), passando per una parola, “rottura”, sempre più frequente nei retroscena giornalistici, e che traspare in filigrana in quel #senzadime che infuria (o almeno così sembra) nella steppa social. Senza dimenticare le tensioni in Forza Italia, sempre più divisa tra il sogno del grande partito di (centro)destra a trazione salviniana, e la nostalgia per il protagonismo liberal-popolare che fu.

Insomma, nessuna prova, ma qualche indizio. Il rischio di un altro divorzio in casa PD è basso ma esiste, e potrebbe rivelarsi l’ultimate weapon in mano al “senatore semplice” di Scandicci. Ma l’extrema ratio filo-Macron (e del resto il presidente francese ha già più volte auspicato una “ricomposizione politica” paneuropea, avente come fulcro proprio En Marche) sarebbe razionale? Un PD macroniano potrebbe avere un futuro? Secondo Damiano Palano, professore di filosofia politica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, l’operazione potrebbe avere un senso. «Anche se può implicare qualche costo politico, si tratta tutto sommato della scelta più logica e lineare per il Partito Democratico di oggi, e forse anche della scelta più coerente rispetto allo stesso progetto che condusse alla nascita di questo partito, ormai più di dieci anni fa».

Infatti, argomenta il docente, «anche se ha ereditato una parte consistente della classe politica del vecchio PDS (e pure del vecchio PCI), il PD nacque con l’obiettivo di costruire un partito “a vocazione maggioritaria”, capace di fondere ciò che restava delle vecchie tradizioni socialista e cattolico-democratica. Si trattava di un’operazione rischiosa, perché le “fusioni a freddo” difficilmente riescono a superare le divisioni nel ceto politico. E non riescono neppure a costruire una nuova identità comune. Oggi possiamo dire che l’operazione è sostanzialmente fallita. Il PD non è riuscito a conquistare l’elettorato di centro (e centro-destra) a cui puntava. Non è riuscito neppure a conservare il bacino di voti ereditato da DS e Margherita. E, a partire dal 2013, ha continuato a perdere consensi in modo quasi drammatico. L’unico elemento simbolico che di fatto ha contraddistinto questa area politica – a partire dall’Ulivo, fino al governo Gentiloni – è stato l’europeismo, o meglio il sostegno alla UE e alle sue politiche. Ed è dunque scontato che ora proprio su questo fragile riferimento si tenti di costruire una nuova identità. Ovviamente ciò può creare qualche problema, se non altro perché l’immagine dell’UE negli ultimi anni è cambiata, e perché l’“euroscetticismo”, anche in Italia, non è più un atteggiamento minoritario».

Certo, una svolta a destra in chiave macroniana piacerebbe poco alla sinistra PD. Ad esempio a Orlando, a Emiliano, a Zingaretti. O all’elettorato rosso delle roccaforti (a rischio caduta) in Italia centrale. «Uno spostamento del PD su posizioni macroniane sancirebbe un ulteriore allontanamento (che però nella stagione renziana è già avanzato parecchio) dalla tradizione socialista – ammette Palano –. È difficile prevedere se ciò comporterà un’ulteriore emorragia di consensi in Toscana ed Emilia-Romagna, ma non possiamo dimenticare come negli ultimi dieci anni proprio in queste aree il voto sia stato estremamente mobile. Il 4 marzo il PD ha ancora tenuto laggiù, ma per molti versi la “zona rossa” non esiste più, perché il PD ha perso, insieme a una fetta consistente dei propri voti, anche la posizione egemonica che deteneva in passato».

La svolta macroniana, all’insegna del pragmatismo europeista, entusiasmerebbe la borghesia riflessiva dei grandi centri urbani (su tutti Milano, che il 4 marzo ha regalato al PD una delle pochissime soddisfazioni), un po’ di pensionati e di statali, gli startupper (che in Francia sono stati stregati da un presidente anglofilo, giovane e tecno-entusiasta), e soprattutto gli imprenditori. «Nel nord produttivo il 90% degli imprenditori manifatturieri, anche di destra, adorano Calenda, e hanno ancora stima di Renzi – spiega a Gli Stati Generali un professionista che ben conosce il ceto industriale del nord –. Il modello Macron piace, agli industriali bresciani come a quelli di Padova o Udine: è un leader preparato, che ha come priorità la modernizzazione della società e dell’economia, e non ha paura di compiere scelte impopolari, vedi la dura risposta agli studenti in protesta».

Cauto Gianfranco Pasquino, docente presso la John Hopkins University SAIS Europe. A parere dell’eminente politologo, Renzi si trova in una posizione difficile. «Potrebbe ritirare le dimissioni, e cercare di riconquistare il partito, ma è un’operazione che per lui sarebbe difficile, molto difficile. Però anche spaccare il partito e andare in una direzione macronista è ugualmente complicato. Perché spaccare si può, ma poi bisogna ricostruire, e Renzi non è un costruttore di consenso: è un uomo che rompe con alcune fasi di un certo passato, però non sa costruire il nuovo. Quindi difficilmente sarà un Macron italiano». È vero, riconosce Pasquino, tutti parlano di riproporre in Italia il progetto macroniano, però «dimenticano che si tratta di due sistemi istituzionali assai diversi tra di loro. Quindi la risposta è che è molto difficile pensare di percorrere la via di Macron laddove non ci sono le condizioni istituzionali che hanno gli hanno consentito non solo di conquistare la carica più importante, ma di portare alla vittoria parlamentare uno schieramento abbastanza variegato. Quindi, a mio parere, di prospettive Macron in Italia non ce ne sono».

Anche gli accademici francesi (o basati in Francia) sentiti da Gli Stati Generali sono scettici. Philippe Marlière, professore di politica francese ed europea allo University College London, dà questo consiglio ai politici del PD che pensano di imitare En Marche: «C’è già stato un Macron italiano, e si chiama Matteo Renzi. È una versione piuttosto soft di Macron, ma comunque ha già rappresentato il macronismo italiano. Lui ha cercato di ottenere una sorta di equilibrio centrista, ed è stato rimproverato dalla sinistra di essere troppo a destra… La sua politica somigliava molto alla linea di Macron, a livello economico, e con il referendum del 4 dicembre 2016 si è visto lo stesso atteggiamento di Macron, quel dire “si deve fare questo, se perdo me ne vado”. E poi ha anche perso le elezioni…»

Secondo il docente, «l’idea di seguire la via macronista per il PD sarebbe fondamentalmente una decisione suicida. Anche perché penso che sia stato l’arretramento del PD sulle questioni sociali ed economiche ad aver spianato la strada alle forze populiste. Quando si delude una parte importante di elettori (non solo i più radicali, anche i moderati), i quali si aspettano un governo di sinistra capace di difendere i diritti delle persone, e non uno che si concentra su come accontentare l’alta borghesia, allora si perde quel tipo di elettorato». Marlière menziona la parabola del Parti Socialiste, che «oggi lotta per la sopravvivenza. Non so se si salverà! E invece nel 2012, quando venne eletto Hollande, i socialisti avevano tutto il potere, a livello nazionale, regionale, locale. E hanno perso tutto. Perché? Perché, semplicemente, la politica del partito non si distingueva più, agli occhi dell’elettorato, da quella di un partito di destra».

C’è da dire che ultimamente Macron non ha vita proprio facile, in Francia. Le sue assertive politiche economiche e lavoristiche, all’insegna del decisionismo e del liberismo, hanno fatto crollare la sua popolarità; ciò contribuisce a spiegare l’attivismo globale di una Francia che si riscopre leader in Europa, e interlocutore privilegiato di potenti come Trump, Putin, Modi. «In Francia è del tutto normale che un presidente dica “la Francia deve indicare la via per il benessere dell’Europa”, mentre se questo accadesse in Italia gli darebbero del pazzo – nota Alessandro Giacone, docente di storia contemporanea all’università Grenoble Alpes –. Questa è la differenza tra un sistema presidenziale e uno parlamentare, e anche tra bagagli storici e culturali ben precisi».

La Francia, osserva Giacone, è stata egemone «soltanto negli anni di de Gaulle, ma all’epoca c’era un’altra Germania, una Germania che comunque usciva dalla guerra». Oggi la Germania è l’incontrastata potenza economica, commerciale, scientifica e demografica del continente. Tuttavia, con la Merkel sempre cauta, un Regno Unito azzoppato dalla Brexit e un’Italia in preda all’incertezza politica, Macron ha le carte in regola per tentare di guidare, con un certo piglio bonapartista, un’Europa che rimane evanescente, e assediata dal populismo di destra (l’inquilino dell’Eliseo, di recente, ha addirittura parlato dell’emersione di “una sorta di guerra civile europea”).

Spiega Leonardo Casalino, professore di civiltà italiana moderna e contemporanea presso l’Università Grenoble Alpes: «Come italiano che vive in Francia da diciassette anni, questa sensazione diciamo così di “bonapartismo” l’avverto. La Francia è un paese che in generale, a qualsiasi livello, pretende che chi ha responsabilità governi anche con mano ferma, ma che poi possa essere giudicato, anche in modo radicale. L’errore che a mio giudizio sta compiendo Macron è che, pur disponendo di una maggioranza assoluta, e quindi di una larga possibilità di decidere, abbia deciso di governare evitando addirittura il dibattito in parlamento, un parlamento in cui ha la maggioranza. E francamente ciò mi sembra esagerato, perché rischia di aumentare la distanza tra istituzioni e società».

Opinione simile quella del professor Marlière: «Ci sono due Macron. Quello che fa i discorsi al Parlamento europeo, che ai media stranieri appare, credo, abbastanza aperto, liberale, rispettoso del pluralismo. Il Macron, per così dire, di rappresentanza all’estero. Poi però c’è il Macron domestico, che reagisce alle contestazioni alle sue politiche liberiste in modo piuttosto muscolare, persino repressivo. Basti pensare agli scioperi studenteschi e alla polizia mandata nelle università… certo magari non è lui che decide di mandarla, ma comunque non ha mai detto una parola contro questa decisione. Il suo ministro degli interni, Gérard Collomb, è molto repressivo, il trattamento verso i rifugiati e gli immigrati è estremamente duro…»

Ai francesi lo stile Macron sembra piacere sempre meno, ma il suo fascino cresce all’estero. Ad esempio piace molto ad Albert Rivera, leader del partito liberale spagnolo Ciudadanos. O ai liberali svedesi. Alle elezioni europee dell’anno prossimo il presidente francese potrebbe lanciare un En Marche continentale in grado di sconvolgere l’Unione Europea. E dato che il successore del nordico Juncker dovrà essere, con tutta probabilità, un europeo del sud, qualcuno mormora che l’uomo giusto potrebbe essere proprio Renzi. Voci a parte, l’uomo più potente di Francia punta a una grande alleanza liberale paneuropea. «Macron di certo mira a diventare il perno di un progetto del genere, tuttavia i fattori di incertezza sono davvero molti – nota Palano –. Per esempio, è improbabile che l’ascesa dell’euroscetticismo si arresti (il 4 marzo in Italia ha dato indicazioni chiare). Ma, se dovesse venire meno la leadership di Macron, la riforma dell’UE si allontanerebbe ancora di più».

Certo, un PD macroniano è molto lontano dal grande partito riformista, ma saldamente ancorato al centro-sinistra, immaginato da Prodi, Veltroni, e altri padri nobili. Perché anche di En Marche, come ci spiega Gilles Bertrand, professore di storia moderna e membro dell’Institut Universitaire de France «non si sa bene se sia di destra o di sinistra. E se il PD guarda a En Marche, si interroga anche sulla propria identità. Perché in En Marche c’è davvero questa ambiguità». Che ha assicurato a Macron grandi successi. Ma non è detto che la storia si ripeta in Italia.

 

 

 

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CAT: Partiti e politici, Roma

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