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Costume

L’Italia del gufo, della rana e del gatto nero

di Flavio Pasotti
29 Marzo 2019

Non i gufi, che sono saggi come Anacleto del Mago Merlino ma sono semmai i gatti neri che attraversano la strada del governo e conseguentemente la nostra che dovremmo temere. Eppure mai come in questa occasione la crisi sembra una battaglia di numeri tra sordi. Finchè i sordi sono da una parte il Governo e dall’altra la opposizione tutto sta nella logica del più logico dei confronti della democrazia ma qui la situazione sta diventando molto, molto più pericolosa; e singolare.
È la società italiana nel suo complesso che sembra non rendersi conto collettivamente di ciò che accade e che pare accettare dopo 11 anni una stagnazione delle aspettative, una passiva rassegnazione della possibilità che il domani non possa essere migliore dell’oggi e cioè la perdita della memoria di quella poderosa forza che ha sviluppato la generazione post bellica e poi dei baby boomers che ha portato il Belpaese dal medioevo della autosostentazione ad essere una grande potenza industriale.
L’Istat questa mattina nel suo poderoso rapporto sulla competitività del paese racconta molte cose, alcune che ammette essere indecifrabili, alcune positive pur in un quadro per nulla rassicurante ma non può nascondere che in 6 anni hanno chiuso 20.000 imprese che da sole hanno generato 71.000 disoccupati e che nel 2018 se un pacchetto di aziende ha resistito sul mercato circa 1/3 invece ha visto una riduzione del fatturato contemporaneamente sul mercato interno e sull’export. Ma soprattutto, ed è agghiacciante per qualsiasi economista, gufo, gatto nero o da bar Sport, che dal 2000 al 2016 la produttività del sistema Italia sia aumentata dello 0,4% in tutto, in piena coerenza con gli anni precedenti mentre cresceva con maggiore potenza in tutti i paesi partner.
La reazione non è quella che ci si aspetterebbe: prendere a calci nel sedere il Governo che con pervicacia ideologica o cinismo elettorale nemmeno presta attenzione ai numeri; al contrario essa si dispiega nella più tipica tradizione italica, quella dello speriamo che io me la cavo, a dispetto di ogni astrale e terrena catastrofica congiunzione internazionale. Per cui a me va bene se becco 80 €, 780€ di reddito di cittadinanza oppure saluto tutti a quota 100 e mi trasferisco a Tenerife e se la vedano gli altri: che però sarebbero certamente i nostri figli e una aliquota non secondaria di quelli che sperano di sorpassare la media degli anni di aspettativa di vita.  È questo il segnale di una rassegnazione sociale collettiva degli italiani dopo 10 anni di sofferenze e trent’anni di discussioni sul debito pubblico e sulle “riforme”, parola letteralmente cancellata dal lessico politico con ignominia e dannazione. E una società che si rassegna è una società che automaticamente perde fiducia nella modernità come chance di mobilità sociale, che si chiude nel particulare guicciardiniano, che si inventa i no vax, che vede paure dove non esistono e non accetta di affrontare quelle vere, in primo luogo la selezione di una élite che non sia quella imbelle che si balocca col ponte e coi trafori, coi barconi e le pistole sotto il cuscino per dormire tranquilli (da bresciano buon tiratore in una provincia che le armi le produce io con una 92 sotto il cuscino dormirei agitatissimo).
In una parola, ci si rassegna a tre stazioni della metropolitana chiuse per mesi nella propria scempiata capitale perché non ci sono i pezzi di ricambio delle scale mobili e che baloccandosi tra gufi e gatti neri non si comprende che il vero problema è quello della rana: la butti nella pentola bollente e schizza via. Ma se la lasci per 10 anni dentro l’acqua all’inizio appena tiepida essa si rassegna a raggiungere il bollore ferma, sempre più intontita, nemmeno rassegnata che sarebbe almeno un ragionare errato ma semplicemente incosciente degli accadimenti, ostinata a rimanere nel proprio brodo elettorale e in definitiva destinata come sappiamo e come sembra non le interessi: forse perché pensa che l’acqua bolla solo per la rana lì a fianco.
“Sveglia Italia” sarebbe il partito che ci serve. Possibilmente con dentro qualcuno che ha studiato, lavorato e che alla fine mette a disposizione del Paese ciò che ha appreso. E invece avanti con bibitari, astuti leoncavallini e allegri suonatori di pifferi magici con la testa rivolta al passato che non c’è più.

Economia
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