Partiti e politici

Se alla sinistra manca il coraggio di essere sinistra

21 Agosto 2019

Esiste un drammatico bisogno di sinistra in questo paese scosso dalla farsesca crisi di ferragosto, bisogno reso ancora più acuto dalla totale assenza di una voce netta che articoli contenuti altrettanto netti di matrice progressista.

Una voce empatica capace di ascolto prima ancora che di giudizio, che perda la propria insana tendenza alla balbuzie al “ma anche” di veltroniana scuola, che sappia dare gambe e fiato a concetti che sono ormai caduti in disuso: è chiedere troppo in  questa estate di mojiti e rosari limonati? Il tempo stringe e il tracollo del Governo Giallo Verde imprimerà altre vorticose accelerazioni.

Se si dovesse scivolare ad elezioni anticipate non ci sarebbe in campo una idea  di società forte e ontologicamente opposta a quella che una delle peggiori destre europee non ha mai smesso di sbraitare, soprattutto  a mezzo social, in un crescendo permanente di caciare sguaiate.

Non ci sarebbe all’orizzonte, particolare non secondario, nemmeno un leader, un “homo novus” capace di porsi al servizio di questa idea di alterità e di diventarne credibile ambasciatore.

Eppure, a ben guardare, non dovrebbe essere complicato trovare il bandolo della matassa, e costruire un piano di azione o meglio di azioni che contribuisca ad archiviare questa infausta, esiziale stagione di populismo, sovranismo e volgarità.

Basterebbe ripartire, ad esempio, dalla lettura della Costituzione ponendosi l’obbiettivo di realizzarne le parti rimaste inattuate.

Se la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro, da lì è necessario cominciare, creando opportunità di occupazione certo, ma legando, parallelamente, la quantità alla qualità dell’offerta che si va costruendo,  fornendo diritti a chi non li ha.

Sfidare qualche tecnocrate europeo (e qualche padroncino padano) sulla necessità di ripristinare l’articolo 18, imporre la valenza erga omnes dei contratti nazionali siglati dai sindacati maggiormente rappresentativi, promuovere la misurazione dell’effettiva rappresentatività delle parti sociali, sarebbero norme da promuovere per sanificare un mercato del lavoro reso irrespirabile dal susseguirsi di riforme sbagliate.

La vera sfida all’Europa non si fa sul 3% ma sulla tendenza in atto di svalutare comodamente il welfare come elemento di recupero di  competitività a fronte delle sempre più frequenti fibrillazioni della finanza.

Se il fisco deve essere progressivo e pesare in misura proporzionale sulla capacità di contribuzione del cittadino, non è eretico, come pensa anche gran parte della attuale classe dirigente di sinistra, proporre un contributo di equità su patrimoni e rendite  finanziarie. Una patrimoniale? Massì chiamiamola con il suo nome!

Unire questa iniziativa ad una lotta senza quartiere alla evasione fiscale, permetterebbe di investire in scuola, sanità, infrastrutture a partire da quelle aree del paese che vivono situazioni drammatiche, dove il diritto all’istruzione o alla cura sono diventati privilegi per pochi.

A chi scelleratamente  millanta tagli delle tasse si deve avere il coraggio di contrapporre la necessità che le tasse siano pagate da tutti in base alle loro possibilità: da un fisco da avversare si passi ad un concetto di “fisco amico”, perché senza prelievo fiscale non possono esserci servizi e sviluppo; con la tassa piatta a piangere sarà il piatto della stragrande maggioranza delle famiglie italiane.

Sui diritti civili, una sinistra che vuole essere alternativa non arretra, ma rilancia.

Bisogna parlare di persone prima di “migranti”, bisogna creare una contro-narrazione oggettiva che spieghi come i migranti sono necessari, come le migrazioni non si arresteranno  e come sia utile che il nostro paese sia volano nelle politiche di accoglienza esercitando un ruolo proattivo nei confronti dell’ Unione Europea, portandola a condividere responsabilità che sono anche sue.

Un’Italia che chiude i porti non risolve i problemi. Né i suoi, né quelli dell’ Europa. Esacerba e incattivisce un clima paese tutto fatto di percezioni distorte e mediate.

Porta anche fieno fresco nelle cascine di quei paesi che costruiscono muri ai confini, con  cui Salvini si è legato a doppio filo senza alcun interesse che non fosse di pura sintonia ideologica, visto che da quegli stessi  paesi “amici”,  in questi mesi, su economia e gestione della crisi migratoria, sono giunte solo sonore porte in faccia.

Un’ Italia che fa la sua parte, da paese fondatore della UE  svolge azione educativa , anche verso i membri più riottosi, svelandone l’assoluta inadeguatezza a stare in un consesso così importante, spronando coi fatti ad un ritorno ai valori di Ventotene che avevano nella inclusione la loro trama costitutiva.

La sinistra di cui si sente bisogno, è amica delle minoranze, le protegge, le valorizza, fedele al principio che non c’è miglior modo di difendere i diritti di tutti di quello di promuovere i diritti dei pochi.

Laicità e valorizzazione del ruolo della donna nella società, contro i rigurgiti cattomachisti che hanno  avuto nel DL Pillon la loro icastica rappresentazione, occupano un posto di primo piano nella sua futura agenda di governo.

Questa sinistra  ha nel suo programma il rafforzamento della legge 194 con il contrasto al fenomeno dell’obiezione di coscienza, politiche per la maternità, per la non autosufficienza, una decisa e capillare azione di contrasto alla violenza di genere, che parta dalla guerra agli stereotipi, dall’educazione, per arrivare a pene esemplari per chi si macchia dell’orribile reato del femminicidio.

Una legge contro l’omotransfobia non può più attendere, come non può più attendere il compimento dell’impianto normativo sul fine vita.

La sinistra deve guardare al suo popolo che non è rappresentato da chiunque, ma da categorie ben precise di persone collocate in una fase storica chiara. Con queste categorie si cerca una lingua condivisa , si indossa i loro abiti, si entra nelle loro periferie e nelle  loro teste e, se del caso, le si convince che un altro modo di ragionare è possibile.

Ecco perché non più accettabile una sinistra che vuole essere attraente per i lavoratori e i disoccupati e nel contempo strizzare l’occhio  alle imprese.

Non è più tempo di regali alla composita galassia padronale, ma di sfide alla stessa.

E’ giunto il momento di spingerla ad un cambiamento che passa dall’abbandonare il pianto greco della scarsa produttività per imbracciare convintamente l’idea che la produttività si recupera con innovazione e  formazione, non con il taglio del costo del lavoro.

Non si tratta di promuovere una guerra ideologica 4.0 fra sinistra e capitale. Sarebbe però auspicabile si compisse, anche in maniera conflittuale, un disvelamento, per separare il grano dal loglio, per isolare il capitalismo malato che, generando instancabilmente differenze e iniquità, è brodo di cultura, di frustrazione, rabbia e odio.

Esiste un capitalismo buono? Probabilmente no, e comunque è una domanda da sempre mal posta.

Esistono imprenditori che si arricchiscono senza necessariamente sfruttare (persone, suolo, ambiente), che hanno ben chiaro il concetto ormai in disuso della “responsabilità sociale d’impresa”.

Una sinistra che si candida per essere alternativa di governo e non solo testimonianza di coerenze stentoree  ha il dovere di costruire un dialogo alto e prospettico con tutto il tessuto produttivo del paese.

La  crisi ambientale, urgenza di questi mesi,  deve essere prioritaria in questo programma, perché lo stupro del pianeta ha ragioni diverse e profonde che chiamano in causa l’idea di come si sta al mondo, di come si vive a tutto tondo, di come e cosa si produce, di come si lavora, del perché e in che modo si consuma. E’ una battaglia culturale che invade i perimetri delle fabbriche del sapere (le scuole e le università), i campi dove regnano caporalato e violenza, le imprese, le nostre case, il nostro essere umani  e cittadini italiani, europei, del mondo.

Curare i mali della terra significa già di per sé curare quelli della società che non è meno malata del nostro ecosistema, vuol dire  anche prendersi cura di noi e di chi dopo di noi verrà, che è quanto più di sinistra vi sia.

Muovendo i passi  da una visione diversa del nostro relazionarci col pianeta si intraprende la strada verso un nuovo modello di sviluppo, ad un nuovo schema di relazione fra soggetti, in definitiva, ad una nuova idea di convivenza.

Queste assolute banalità non trovano cittadinanza e profilo organico nella sinistra italiana, forse per la paura della loro potenziale immediata impopolarità.

Inseguire i sondaggi vuol dire essere conniventi al sistema di consenso su cui si abbarbica la destra populista.

Una proposta alternativa deve essere alternativa in tutto. Deve essere costruita, deve scontare lo scotto di essere nuova e pertanto di aver bisogno di tempo per attecchire e germogliare in un terreno che si sa essere ostile.

Deve avere il coraggio di credere e di farsi credere. Di coraggio si è tanto parlato nel dibattito al Senato che ha sancito la fine del Governo Conte. Il coraggio di una scelta, di un gesto, non esaurisce tutto il significato di questo termine.

Esiste anche un coraggio più faticoso che ha paradossalmente a che fare con sentimenti e stati d’animo quali la paura, il dubbio, l’incertezza, che da questi  però sa prendere  forza e linfa. È l’unico coraggio, complesso e denso di significato, difficile anche solo da pronunciare, che davvero serve ora al paese: il coraggio di una idea.

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