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Partiti e politici

Cos’è un conflitto di interessi e cosa avrebbe detto Donna Letizia della Boschi

di Michele Fusco
15 Dicembre 2017

Del come stare a tavola, così come in società, hanno scritto in molti, ma nessuno come Colette Rosselli, ch’ebbe due vite pubbliche molto conosciute e diverse tra loro e non si saprebbe dire quale fosse la prima e quale la seconda, visto che essere moglie di Indro Montanelli e, allo stesso tempo, dare corpo e vita alla mitica Donna Letizia erano a loro modo due imprese egualmente ragguardevoli. Per restare a questa seconda, ogni trasposizione d’epoca è pur lecita, pensando a quali saggi consigli Donna Letizia avrebbe potuto dispensare a Maria Elena Boschi dalle colonne di «Grazia» (e non solo sulle mises serali). Il concetto di «conflitto di interessi» era ricompreso perfettamente già allora, dove bastava leggere i suoi scritti lievi e puntuti in risposta ai quesiti delle lettrici, e dove ogni risposta poteva contenere un moto di sensibile disapprovazione sempre temperato da una onorevole via d’uscita che la nostra Colette prospettava all’interessata. Il conflitto di interessi, che per via moderna risponderebbe a leggi, norme e anche regolamenti, un tempo non aveva nulla di tutto questo impianto leguleio, ma viveva esattamente di sensazioni e di modesti sentimenti dell’animo. Era molto più preciso e delineato di oggi soprattutto perché non interpretabile. Una cosa che “NON” si poteva fare era cristallina per tutti e chi, in piena coscienza, decideva di procedere in senso inverso sapeva di prendersi tutte le responsabilità del caso: la società lo avrebbe giudicato per quello che era. In buona sostanza, il conflitto di interessi aveva i tratti purissimi di una semplice ma delicatissima questione di stile, in cui giocarsi decoro umano e livelli di dignità da non superare.

Oggi che tutto è più contorto e rognoso e la politica è ridotta a zuffa da pollaio, i contorni del conflitto di interessi non sono neppure più sfumati. Se ne sono proprio andati. La signora Rosselli in Donna Letizia sarebbe inorridita all’ineleganza di un ministro che nello svolgimento della sua “missione” si permette di piazzare come argomento di discussione quello di una banca dove il padre è semplicemente consigliere e poi vice presidente. Direbbe sottovoce che “non si fa”, che manca quel pizzico di stile e leggerezza che una signora dovrebbe sempre avere in una tasca della sua borsetta. Consiglierebbe, probabilmente, un silenzioso disimpegno, quel fioretto laico del non-interventismo quando in ballo ci sono le questioncelle di famiglia. Negli anni, la società ha aumentato a dismisura il suo livello di ipocrisia, al punto che un ministro che ha cointeressenze di qualunque tipo (dal papà casinista alle azioni di una certa società quotata, eccetera) avrebbe l’obbligo di lasciare la sala del Consiglio ogniqualvolta viene trattato un argomento “sensibile”. Si rideva spesso, nel ventennio di Silvio Berlusconi, di questa situazione immaginando le porte vorticosamente girevoli dei suoi governi, ma poi è anche vero che una sinistra becera preferì tenere in vita il moloch simbolico piuttosto che varare una legge intelligente (quella che c’è, la Frattini, è una mezza cagata).

In una società mediamente illuminata, almeno a quella a cui tenderemmo, un ministro in aperto conflitto di interessi dovrebbe assolutamente restare al suo posto all’interno del Consiglio dei Ministri, proprio per dare corpo e sangue simbolico alla rappresentazione del suo conflitto. Ogni suo gesto, ogni sua parola, ammesso che parli e agisca, sarebbero assolutamente trasparenti e valutabili esattamente per quello che sono. Uscire dalla porta posteriore è qualcosa davvero di poco onorevole. Rimane sempre una questione di stile, di sensibilità, che – purtroppo – o hai dentro o non hai.

maria elena boschi
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