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Partiti e politici

I nuovi linguaggi sociali “ad minchiam” dell’era Renzi

di Michele Fusco
24 Maggio 2016

Qualcosa di effettivamente rivoluzionario c’è nel passaggio tra l’era democristiana, quella berlusconiana e, oggi, quella renziana. È il linguaggio sociale in uso a questi nuovi politici, certamente più giovani, meno paludati, molto più attenti alle sollecitazioni veloci dei social, utilizzatori finali dei medesimi, pochissimo legati alle vecchie cerimonie lessicali ch’ebbero nelle convergenze parallele il punto massimo della perversione. Nella ricerca di un linguaggio più semplice e diretto, che possa attrarre più elettori con la freschezza di una grammatica diversa, i nuovi mondi renziani hanno deciso che il carico di responsabilità derivanti dal governare, dall’essere Potere costituito, dal servire la cosa pubblica, non è (più) una questione dirimente, per cui osservare scrupolosamente certi livelli di guardia e utilizzare il linguaggio soltanto in maniera “alta”. Di più. È stato abbattuto anche il sacro principio secondo cui chi governa risponde solo se attaccato. Oggi invece è cosa buona e lecita attaccare per primi in modo da attaccare due volte. Questo cambio di passo non è detto che sia così genuino, che appartenga davvero a una nuova generazione, che magari più spregiudicata delle precedenti ne utilizza sapientemente i meccanismi. Se così fosse, infatti, ci troveremmo di fronte a una genuinità ingenua che non ci pare di riconoscere in certi ministri renziani e nel più renziano di tutti che è il capo stesso. Tutto ciò, semmai, potrebbe nascondere una questione più strutturale: una pericolosa mancanza di cultura (politica e generale) da una parte, che spinge a espressioni vagamente da fuori di testa, e un’altrettanto pericolosa attitudine all’estremizzazione dei conflitti, come di ragazzotti che amano la rissa e cercano occasioni utili per alzare le mani.

Gli ultimi casi vanno decisamente in questa direzione. Prima l’accostamento di parte dell’elettorato a Casa Pound, poi la becera querelle sui partigiani veri o farlocchi, sono snodi di una certa consistenza e non è un caso che a farsene carico sia stato un ministro di peso assoluto come Maria Elena Boschi, la quale ha buoni studi sulle spalle e dunque l’energia necessaria per sostenerli. In un mondo non inquinato da una sciocca contrapposizinone tra renziani e antirenziani, in un mondo cioè dalle sfumature più varie, due cretinate al cubo come quelle avrebbero avuto la conseguenza di delegittimare chi osava pronunciarle. Invece, dirle oggi urbi et orbi non è stato che l’innesco per una paradossale dilatazione delle scemenze, che si sono reiterate per giorni e giorni. L’obiettivo dunque di non passare per il matto del Paese ma di condividerne le responsabilità con altri sciocchi caduti nella rete è stato perfettamente raggiunto. Qualcuno si è spinto persino a immaginare una regia occulta di Jim Messina, il guru della comunicazione che ha lavorato per Obama e che ora, al mercato dei saldi costituzionali, presta la sua opera per il Partito Democratico alla democratica cifra, si dice, di 200mila euro. Con tutto l’amore per gli States, valutiamo Messina più forte di queste cazzate a buon mercato che ci paiono onestamente italianissime e dunque riconducibili a qualche altro comunicatore, se non proprio farina del sacco della ministra medesima che le ha abilmente propalate.

Ci tocca qui richiamare alla memoria uno dei nostri migliori filosofi sportivi, il professor Scoglio, che sull’argomento aveva le idee estremamente chiare. Quando gli pareva che alle parole non corrispondesse la profondità degli argomenti, utilizzava una formula ormai consegnata alla storia: «Qui si stanno tirando fuori parole ad minchiam». Ecco, ci pare che più che di Jim Messina, i nostri ragazzi renziani avrebbero bisogno di una rinfrescata del Prof.

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