Partiti e politici
Il “ritorno” di Mattarella invita Giorgia a uscire dal fortino
Tante chiacchiere nel caldo estivo, e un solo fatto politico davvero importante: il “ritorno” in campo, con passo felpato e impronta riconoscibile, di Sergio Mattarella. L’incontro di giovedì 13 luglio tra il Presidente della Repubblica e la Presidente del Consiglio segna infatti la decisione da parte dell’inquilino del Quirinale di far sentire la propria voce ai vertici dell’esecutivo, da un lato, e che tale voce finisse al centro dell’attenzione politica-mediatica, dall’altro. Non insomma un semplice intervento per far conosce a Meloni il proprio punto di vista, di esperto politico e di garante della Costituzione, ma anche un segnale dato all’opinione pubblica italiana, all’intero arco politico a giornalisti e analisti politici. Dopo giorni passati ad ascoltare le invocazioni di pezzi di opposizione, che gli suggerivano addirittura di non firmare il Disegno di Legge sulla riforma della giustizia (per definizione, un disegno di legge è solo una bozza e sarà poi il lavoro del parlamento a renderlo meritevole di un vaglio di costituzionalità approfondito), e dopo aver assistito alle tante polemiche sul tema della giustizia, ha con ogni probabilità chiesto alla premier di abbassare i toni, e di adoperarsi perchè li abbassino anche i suoi compagni di partito e maggioranza, a vario titolo coinvolti in grane giudiziarie, proprio mentre il parlamento si appresta a discutere appunto una riforma dell’ordinamente giudiziario. I contenuti del colloquio ovviamente saranno stati diversi e le ricostruzioni per definizione non possono che essere parziali, si sarà parlato anche d’altro, e non solo di giustizia, ma più di tutto, guardando il film di questa settimana e di quelle che verranno, resta la sensazione che Mattarella abbia voluto far uscire Meloni da un fortino in cui, sempre di più, sembra sserragliata solo con la compagnia dei suoi fedelissimi.
Già, perchè la presidente del Consiglio continua a difendere a spada tratta i suoi uomini e le sue donne. Sembra non poter concepire un riconoscimento dell’errore su Delmastro e sul fidatissimo Donzelli (qui un piccolo ripasso della vicenda, e della loro fedeltà a Giorgia), e neanche su Daniela Santanchè e le sue friabili fortune di imprenditrice oggi al vaglio della magistratura. Sul caso La Russa ha saggiamente declionato parole di presa di distanza, ma è anche il caso, tra quelli esplosi, che per nulla riguarda l’attività di governo e poco anche quella politica, avendo a oggetto l’eventuale reato commesso dal figlio del suo padre politico Ignazio La Russa. In generale, sulla giustizia, sul Pnrr, sulle riforme istituzionali, insomma su tutti i dossier vitali e simbolici che stanno in prima fila sulla scrivania della presidente, l’aria che tira nei corridoi romani è sempre la stessa: Meloni e i suoi ascoltano poco, quasi niente. Meloni si fida del sottosegretario Mantovano, si affida a Raffaele Fitto, e l’ultima cosa di cui ha voglia è riconoscere che sono cambiati gli equilibri, anche a causa di fattori esogeni, come le inchieste, e che quindi bisogna prenderne atto, magari mettendo mano alla squadra di governo. Sa bene che questo potrebbe aprire un risiko di proporzioni ben più grandi, e quindi anche per questo rifiuta – e continuerà a farlo, fino a quando eventuali evidenze non lo rendessero necessario – di immaginare un “dopo-Santanchè” al ministero del turismo. Basta spostare una casella e gli appetiti degli alleati e le critiche interne crescerebbero a dismisura. Anche un solo nome, una sola poltrona, possono lasciare segni profondi che diventano cicatrici permanenti. E lei, fedele alla linea che interpreta da quando è arrivata al governo, cerca di fare meno che può, in modo da sbagliare pochissimo.
Solo che la tattica dell’immobilismo mostra la corda, e non può diventare strategia. Lo si vede naturalmente sulle partite importanti. La riforma della giustizia, per definizione, tocca interessi costituiti e punta a cambiare gli equilibri – del resto, altrimenti, che riforma sarebbe? – ed è per questo che sta così tanto al centro del dibattito, e così in profondità anima i nervosismi di tutti. Le partite dell’autonomia differenziata e del semipresidenzialismo – due proposte di modifica costituzionale che devono camminare insieme, perchè la prima è fondamentale per Salvini che non ama la seconda, che invece è cara al partito di Meloni, che però non sente propria la prima – mostreranno presto che un conto è chiacchierare, un conto è cambiare l’anima di una Repubblica. I ritardi sul PNRR – sicuramente non tutti imputabili a Meloni, e neanche a Draghi, ma a un’ormai storica insufficienza dell’apparato statuale e burocratico nazionale – ribadiscono ogni giorno che dell’Europa abbiamo molto bisogno, e non abbiamo alcuna alternativa al provare a starci dentro. Gli errori – lo ribadiamo – non sono tutti stati commessi nell’ultimo anno, anzi, e però anche adesso ne sono stati commessi vari, e ogni volta che deve uscire un decretino da Palazzo Chigi l’ansia è quella per un parto trigemellare.
I compagni di viaggio del governo, si sa, infine, sono solidali fino a un certo punto. Guardate Salvini, ad esempio. Sarà che si avvicina la stagione del Papeete, la sua preferita. Sarà che da settembre inizierà una lunga e noiosa campagna elettorale per le europee di primavera 2024, altra cosa che gli piace tantissimo. Sarà che l’avevano dato tutti per morto dopo le ultime elezioni politiche, e invece è sempre lì, e in casa Lega nessuno sembra avere più troppa fretta di cambiare cavallo. Sarà quel che sarà, ma insomma, il Capitano di colpo è molto attivo. Un giorno spiega che se fossero i leghisti a gestire il PNRR andrebbe tutto meglio, il giorno dopo chiede una “pace fiscale” (il solito condono) per milioni di italiani. Di immigrazione parla meno, anche perchè, come gli ricorda il compagno di partito Luca Zaia, il problema compete a chi governa, e accidentalmente governa anche la Lega, e Salvini stesso. Ma insomma, c’è da giurare che Salvini sarà la spina nel fianco di Meloni, e proverà a usare le prossime elezioni europee per uscire definitivamente dall’angolo, e tornare centralissimo sulla scena politica degli anni che verranno.
Le Europee sono attese con grandi speranze anche dalle opposizioni. La scommessa principale de Pd, in particolare, è che i risultati del voto premino a livello continentale la stessa coalizione che governa oggi. Con le destre salvinian-meloniane di tutta Europa che marciano divise ma sono poi unite dal destino di stare in minoranza, rispetto al governo comunitario. Questo, secondo i desiderata di chi è all’opposizione in Italia, sarebbe fondamentale nel processo di indebolimento di Meloni, che piano piano si logorerebbe. Qualcuno dice che il processo è già iniziato, e che un’accelerazione di questo sfaldamento – addirittura – potrebbe arrivare già prima della fine dell’anno, anche favorito – appunto – dall’isolamento a livello europeo. È una prospettiva alla quale, personalmente, non credo, e che in nessun caso auspicherei. Chi è legittimamente al governo dovrebbe lavorare per realizzare il programma che ha presentato agli italiani, e per migliorare lo stato e le sue infrastrutture materiali e immateriali. Chi fa opposizione, invece di sperare nei complotti, dovrebbe lavorare per tornare al governo dalla porta principale, proponendo ricette e visioni diverse di paese e di società. Sembrano banalità, e di certo lo sono. Non fosse che siamo così abituati a veder succedere tutt’altro: e questo, dopotutto, è il problema principale.
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