Partiti e politici

L’ottimismo da social network non va più: il 2016 è l’ultima chiamata per Renzi

31 Dicembre 2015

Sono tante, tutte diverse tra loro, le Italie che salutano il 2015 e si affacciano all’anno che verrà. Un magma di sentimenti, percezioni, esperienze materiali e concrete difficilmente riconducibili ad unità e a sintesi, anche polifonica. Più facile, poggiando l’orecchio a terra, sentire una cacofonia dissonante: le note soavi e celestiali di chi vive di ottimismo, ha buone ragioni per (o il dovere di) esserlo, si mischiano e sovrappongono al basso continuo e sordo degli arrabbiati che hanno la pancia vuota, o il cervello in azione, o la bile in servizio permanente effettivo.

I dati nudi e crudi però esistono e dicono di un orizzonte ancora fosco, seppure non privo di elementi positivi. È vero, una lieve ripresa dell’occupazione e degli indicatori di produzione c’è, ma sarebbe irrazionale non calcolare il tasso di doping che il quantitative easing della Bce di Mario Draghi ha immesso nelle vene dell’economia europea. Un po’ meno disperata è l’auto-narrazione dell’Italia di questi tempi, rispetto a qualche anno fa, e anche questo è un dato di fatto. Ma i famosi “livelli pre-crisi” sono lontani anni luce, e se non si sentisse il peso e l’affanno del tempo che viviamo, se non ci fosse dietro ai sorrisi smaglianti il dubbio che la paura del baratro abbia una sua ragione, non ci si affannerebbe tanto per vedere corretti di uno zerovirgola i dati su una crescita che, anno su anno, resta sempre ben al di sotto del punto percentuale. Un dato ancora negativo, sempre trascurato anche se sottolineato di recente da Mario Draghi in persona in occasione del quarantennale di Prometeia a Bologna, riguarda invece il tasso di investimenti lordi, cioè dei soldi che vengono messi in attività di impresa: e hai voglia a dire “gufo” a chi se n’è accorto. In sostanza, nonostante le luminose riforme, immobilizzare capitale in impresa in Italia è ancora considerato molto poco conveniente e anche l’Istat, mentre prevede al solito un futuro in crescita, sul presente e sul passato deve registrare o cali decisi o, per l’anno che si conclude, una moderata e poco rassicurante altalena attorno allo 0. Dopo anni in cui il disinvestimento è stato invece la regola. E così, siamo un paese che finisce un anno e ne inizia uno nuovo con l’impressione di dover continuare a sopravvivere a se stesso, ognuno portatore di interessi e diritti a geometria sempre più variabile, e con la sensazione concreta che, dopo tutto, la politica non sia poi così importante, che si possa o si debba fare anche senza. Presa d’atto di una realtà che ormai si vede dominata da regole e forze sovranazionali, o rassegnazione alla sostanziale immutabilità della politica italiana dei nostri anni, che trova sempre forme nuove per non incidere sui nostri problemi strutturali profondi?

Una cosa è certa. Un ciclo si è compiuto definitivamente e alla fine di questo 2015 possiamo dirlo senza più timore di smentita: il “berlusconismo politico”, inteso come tempo in cui il carisma di Silvio Berlusconi era centrale nella manifestazione e gestione della democrazia italiana, si è irreversibilmente concluso. Non c’è spazio per ritorni, sorprese, colpi di coda. Curioso a notarsi, al netto degli addetti ai lavori a vario titolo interessati, da quando “non c’è più lui” la politica è molto meno centrale nelle vite e nei pensieri di tutti. Fino a quando nel centro della scena c’era Silvio Berlusconi, con alleati e avversari tutti reduci del Novecento, la politica sembrava indispensabile e imprescindibile, e infatti andavano a votare otto italiani su dieci perché non schierarsi di qua o di là proprio non si poteva: oggi a quello stesso popolo la politica appare assai meno indispensabile, perfino non necessaria. E infatti, non per niente, va radicandosi una progressiva disaffezione dalla pratica attiva della politica democratica, cioè dal voto. È dunque dentro a un quadro nuovo che dobbiamo provare a pensare al prossimo futuro del nostro paese.

Dentro al quadro, a questo quadro marcatamente impolitico che delinea la scena politica, vediamo un uomo solo al comando: ma quella che vive adesso non è più la solitudine di chi corre troppo veloce per tutti gli altri. Quest’uomo solo, nel pieno dei 40 anni compiuti giusto un anno fa, sembra a volte e soprattutto in questi ultimi tempi, mutare la proverbiale energia in nervosismo senza disegno. Perché mentre si vede chiaro lo schema di sempre – trovare un nemico, preferibilmente alla propria “sinistra” allegramente sinonima di “passato” – si continua a non capire bene dove lo si vuole portare, questo benedetto paese. Le cose fatte esistono, ed è un dato nuovo per la politica da qualche decennio a questa parte. Le cose annunciate, promesse, strombazzate, sono tante di più: e qui la novità invece non c’è. Quel che però non si capisce è cosa si vuole fare, lungo quali direttrici. Le domande, le questioni, sono ormai antiche e stanno lì da un pezzo: come si vuole ripensare una spesa pubblica davvero troppo sbilanciata verso il comparto previdenziale? Come si pensa, davvero e permanentemente, di ripensare un patto generazionale, al di là di normative sul lavoro che, con l’attribuzione di minori diritti e grazie a una decontribuzione certo non oltre prolungabile, hanno rafforzato la distanza tra generazioni? E come si pensa di far ripartire la voglia di fare impresa, cioè di generare lavoro, ricchezza, futuro, senza destinare le poche risorse che ci sono all’abbattimento delle tasse sul lavoro e sul plusvalore, invece che destinandole in bonus a lavoratori già garantiti (80 euro) o a diciottenni arbitrariamente scelti dal mazzo (500 euro)? E ancora: come si pensa di poter mettere mano – ed è sacrosanto volerlo fare – alle poco vigili autorità indipendenti che avrebbero dovuto vigilare sul mercato finanziario e sui risparmi degli italiani, al di là del gesto estemporaneo e non strutturale di affidare una partita scottante al solito Raffaele Cantone? E con quali alleanze e strategie si pensa di sostanziare la (sacrosanta) critica all’Europa parlante tedesco che sui migranti e sulle banche sembra riconoscere sempre le esigenze di tutti, ma quelle del membro fondatore Italia sempre un po’ meno? E infine, davvero è più importante il risultato del referendum sulla riforma costituzionale di tutte le questioni nodali cui abbiamo accennato appena sopra?

Già, perché il problema di Matteo Renzi, quel che continua a mancare a questa storia politica, non è la capacità di scegliere i dossier o i nodi da sciogliere ma, piuttosto, la forza, la pazienza, il corollario di intelligenze critiche che servono per risolvere i problemi in modo ampio, stabile, duraturo, non ossessionato dal consenso di breve periodo, capace di correre rischi elettorali e di scontentare gruppi omogenei in cambio di una società più aperta ai bisogni e ai meriti di chi è ancora ampiamente sottorappresentato. Un problema non da poco, che riguarda soprattutto le generazioni e le aspirazioni in nome delle quali, ormai qualche anno fa, Matteo Renzi aveva lanciato la sua lungimirante, coraggiosa, ambiziosa sfida al vecchio ceto politico della sinistra italiana. Per riprendere il filo di quel discorso invero un po’ logorato, tuttavia, servono molte cose che non si vedono, a cominciare da intelligenze critiche serie e rigorose che sostituiscano il monopolio dei pochissimi colleghi di governo e sottogoverno tutti toscani che hanno accesso alle volontà del sire. E poi serve un partito. Meglio: un luogo che attragga gli interessi legittimi, li aggreghi, li faccia discutere e infine li rappresenti. Serve una cosa nuova, naturalmente, e le nostalgie delle polveri che furono servono solo alle anime di chi le prova e le coltiva. Ma la furia iconoclasta, l’indifferenza fatta di alzata di spalle, il sorrisetto sardonico del capo che “se ne frega”, se possibile, servono anche a meno. Perché bypassare ogni forma di politica organizzata per parlare direttamente a un corpaccione moderato e impolitico può forse garantire la vittoria (asserto tutto da dimostrare sulle partite delle prossime amministrative), ma impone la linea di un pezzo di paese che non è sicuramente quello più avanzato e volto al futuro ma, probabilmente, meno affamato e cosciente. Che non ha bisogno di partecipazione alla formazione dei processi decisionali, da un lato, e che non riconosce i limiti strutturali di un’azione di governo con un occhio sempre sui sondaggi, anche perché è esattamente l’obiettivo di comunicazione di quest’azione.

Sono – ce ne rendiamo conto – ragionamenti complessi gettati su un tavolo più abituato alle semplificazioni. E sono anche, altrettanto evidentemente, parole non entusiaste o elegiache, che sono invece quelle preferite dal premier-segretario. Ma proprio per questo sarebbe prezioso che venissero in qualche modo raccolte e metabolizzate. Perché l’assenza di “avversari davvero credibili”, come dicono tra l’esaltazione e l’autoconvincimento i renziani più ferrei, non diventi una scusa per l’azione scomposta e anzi, se presa sul serio, possa stimolare un’azione più coraggiosa e strutturale. Del resto, se non ci sono avversari veri, perché rincorrere sempre il consenso invece di provare a segnare positivamente la storia del paese, raccogliendone le istanze più decisive, più profonde, più nobili, anche se non necessariamente più popolari? Se davvero non ci sono avversari, insomma, perché passare il tempo a irriderli?

Sembra una questione di poco conto e invece siamo, probabilmente, al cuore della stagione politica che viviamo. Il 2016 è l’ultima chiamata per riaffermare questa stagione dei 30-40enni al potere come una cesura positiva nella sostanza, non solo nello stile e nelle facce. Altrimenti – tra due anni o tra dieci, per il paese e per il suo futuro poco cambia – sarà definitivamente archiviata come il proseguimento del passato con altri mezzi. E di politici che restano nella memoria per la capacità che hanno di conservare il potere non abbiamo mai avuto bisogno: ma adesso, soprattutto, non possiamo proprio più permetterceli.

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