Le parole della politica italiana sembrano ferme a trent'anni fa

Partiti e politici

Moderati, Ulivo, Nord: le polverose parole d’ordine della politica italiana

17 Novembre 2025

Ogni tanto dovremmo riflettere laicamente sulle categorie con le quali descriviamo la politica italiana, la critichiamo, la sproniamo, e su quelle con le quali i politici si danno battaglia all’interno e all’esterno dei loro schieramenti. Dovremmo provare a confrontare le parole che circolano nei talk show, nelle interviste, nei salotti pubblici e in quelli privati ma dediti alla  cosa più pubblica di tutte, cioè la politica, con quelle che si sentono nei bar di periferia e di provincia, nelle case sempre più anziane e sempre più vuote, sui mezzi pubblici, nei luoghi di lavoro che non possono permettersi lo smart working o non ne ammettono il valore, e negli uffici contemporanei dei centri urbani che invece della presenza fanno obbligo sempre più rarefatto ai lavoratori. Dovremmo confrontare il lessico politico di chi lo parla con la sensibilità politica di chi vive nel paese e ha diritto di voto: non per forza per dire che chi fa politica o chi la racconta vivono fuori dal mondo, ma per capire se e in che modo quello che succede nella società trovi ancora una traduzione nelle categorie usate da chi governa, da chi critica chi governa, da chi ambisce a governare, da chi ha governato.

Queste domande, buone invero per tutte le stagioni, da qualche lustro, sembrano anche più pertinenti oggi. Sarà che, pare, viviamo un tempo globale e nazionale nuovo, della politica, anche se ovviamente questo presente e il futuro mantengono più di una parentela col passato. Sarà che i grandi cambiamenti nel mondo, nei mezzi di produzioni e nella tecnologia, promettono di manifestarsi in maniera ancora più nitida nel prossimo futuro, e nessuno sa come. Sarà che, più prosaicamente, ci si avvicina alla fine della legislatura e varie scadenze intermedie promettono – o minacciano – un anno intero di campagna elettorale crescente nei toni e, simmetricamente, calante nella qualità del dibattito. Sarà quel che sarà, ma insomma, ci sono momenti nei quali davvero sembra che l’analisi della società e le parole che si usano per raccontarla sono ferme, immobili, al tempo nel quale chi scrive  stava per conquistare il diritto di voto. Parliamo, per essere onesti, di circa trenta anni fa.

La prima categoria, una parola che torna continuamente nel discorso politico bipartisan, è quella dei “moderati”. Un tic vecchio come la Repubblica italiana, ereditato dal tempo morto e sepolto nel quale effettivamente un partito interclassista e capace di prendere voti dal Cadore al Belice, la Democrazia Cristiana, faceva del “moderatismo” la chiave per spiegare le ragioni per essere votata. Di fronte però c’era il Partito Comunista, in varie gradazioni che iniziarono con Togliatti e finirono con Veltroni. Berlusconi, che tutto era fuorchè un moderato, e anzi andrà prima o poi andrà compreso e studiato nella sua pionieristica funzione di fondatore del populismo democratico occidentale, se ne fece paladino retorico. Molte volte vinse, qualche volta perse, ma è davvero difficile ricondurre all’insufficiente moderatismo dei suoi avversari le sue vittorie. Basti pensare alle sue sconfitte: quando perse contro Prodi, il fondatore del centrodestra che ancora oggi governa il paese, fu una volta sconfitto grazie alla defezione della Lega di Bossi, che regalò un fiume di collegi elettorali del Nord al centrosinistra, e l’altra, dieci anni dopo, si trovò in minoranza per 24 mila miseri voti, un vantaggio minuscolo ottenuto dalla più clamorosa accozzaglia tra diversi che la storia della cosiddetta Seconda Repubblica ricordi. Giù per su, la stessa ricetta che oggi chiamiamo “campo largo”: un’alleanza insostenibile da Calenda a Fratoianni, passando per Conte e Schlein, Franceschini e Picierno, e via elencando. Una compagine improbabile, ma anche l’unica capace, almeno in teoria e in matematica, di competere col centrodestra. Perchè? Perchè questo paese è stabilmente spaccato in due ma con una maggioranza relativa favorevole al centrodestra, da oltre trent’anni. Il non essere abbastanza moderati, o liberali, o pro-market, non è la ragione per cui la sinistra non vince, sennò avrebbero vinto Rutelli, Veltroni, Letta e Renzi, che fecero alleanze compattamente “riformiste”, senza estreme, e persero tutti malamente. Se qualcuno se lo fosse dimenticato, a latere, è bene ricordare che dopo le esperienze forzose dei governo Monti e Draghi al governo, e col favore popolare, ci son finite il populismo giallo.verde e la destra di Giorgia Meloni. Naturalmente, e non lo scrivo da oggi, alla causa della vittoria della sinistra non sarebbe utile nemmeno realizzare il sogno di Schlein, di una sinistra “alla Mamdani” – per citare l’intervista distruttiva dedicatale da quello che resta il suo padrino politico, cioè Romano Prodi, appunto – perchè è un perimetro minoritario nelle società democratiche a capitalismo avanzato, e il suo spazio è probabilmente in via di ulteriore riduzione, fatte salve eccezioni tecnicamente eccentriche, come appunto la città di New York, e alcune sue sorelle minori in giro per l’Occidente.

Eppure, le parole invecchiate che vengono raccontate al presente sono tante, e non stanno solo nel campo del centrosinistra. Pensiamo a come, per stare nel campo del centrosinistra, qualcuno pensa e dice che serva un “nuovo Ulivo”, come se davvero il nome di quella pianta mediterranea significasse politicamente qualcosa per chi non c’era, e come se davvero fosse in grado di mobilitare le piccole masse superstiti di quel tempo. Oppure, per passare alla destra, fa quasi tenerezza la rimpatriata nordista di qualche ex dirigente, nostalgico della Padania di Bossi e comprensibilmente arrabbiato per la deriva tutta Vannacci e Ponte sullo Stretto di Salvini. C’è solo un problema, non marginale: anche il Nord, come il paese, è cambiato, in direzione che in parte modificano la vocazione produttiva, e in parte la confermano. Ma soprattutto, ha già dimostrato che o può dare piena fiducia a qualche campione che parla la sua lingua – vedi Zaia – oppure si fida serenamente del nuovo centralismo moderato (ops) di Giorgia Meloni. Anche questa operazione, insomma, serve per declinare al presente parole del passato, parole che hanno descritto un tempo sepolto dai decenni, e che però sembrano le uniche che si possono spendere.
Proprio nell’intervista citata poco sopra, Romano Prodi afferma che Giorgia Meloni vince con l’inazione, in assenza di alternativa. Molto probabilmente ha ragione. Ma qualunque alternativa può nascere solo dalla conoscenza aggiornata della società in cui si vive, da uno sguardo che ne recepisca le passioni, gli umori e bisogni. Sarebbe un cammino lungo, che nessuno sembra aver davvero la voglia di cominciare a fare. Nel mentre, mettiamoci comodi, e continuiamo a osservare l’inerzia di un’egemonia con poche idee e poche risorse: sicuramente non è quella di cui avremmo bisogno, ma resta senza dubbio quella che ci meritiamo.

 

 

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