Bene, è finita. Finalmente! Forse.
9 votazioni per rieleggere Sergio Mattarella. Nella migliore tradizione della Prima repubblica.
Ricordo che non è la prima vota.
Nel 1962 9 votazioni furino necessarie per eleggere Antonio Segni; nel 1964 21 votazioni furono quelle per eleggere Giuseppe Saragat; nel 1971 23 votazioni furino necessarie per eleggere Giovanni leone, poi nel1978 16 furono quelle per eleggere Sandro Pertini; ancora nel 1992 16 votazioni furono quelle per eleggere Oscar Luigi Scalfaro.
Un tratto accomunava tutte queste elezioni lunghe: quella era l’Italia dei partiti politici di massa, l’Italia della Prima repubblica.
Nel 2022 forse dobbiamo dire che non siamo migliorati. Questo se ci vogliamo consolare. Perché la realtà dei fatti a me sembra molto più secca.
La vicenda elettorale di questi 30 anni dopo la fine dell’Italia dei partiti politici, credo esprima un dato difficilmente ovviabile con cui dovremo fare i conti. Questo: è morta la Seconda repubblica. Forse non è nemmeno mai nata, ma Il dato a me sembra che in trenta anni, non è stata in grado di costruire una classe politica. In ogni caso i nomi proposti in queste settimane erano tutti già classe politica nel corso della Prima.
Questo è sufficiente per dire senza pregiudizio che quella che abbiamo chiamato “seconda repubblica” ha fallito, forse non c’ha nemmeno mai provato, per davvero.
Qualcuno forse potrà anche dire, a scusante, che trenta anni non sono un tempo sufficiente.
Non sono d’accordo.
Il fascismo è durato complessivamente 23 anni, eppure a un’analisi dei membri della Costituente, se anche è dato di verificare una presenza non indifferente di personalità politiche già affermate e definite prima del 1922, è indubbio che in quell’aula era presente almeno una generazione di politici cresciuti nel tempo del fascismo o in forza dell’esperienza del fuoriuscitismo.
Il quadro che abbiamo davanti è non solo desolante, ma quel che conta è che non possiamo nemmeno legittimamente incolpare qualcuno, trovare un capro espiatorio «terzo».
La Seconda Repubblica è stata l’esperimento durato più a lungo nel tempo fondato sul richiamo alla sacralità della società civile, un sistema politico in cui l’entusiasmo di fondare gruppi, cartelli elettorali, dare vita a associazioni in tutte le forme – per finire con quell’esperimento di fallimento di creazione di una classe politica rinnovata rappresentata da M5S – che si presentavano sulla piazza politica come attori del rinnovamento, della rifondazione della politica.
Un dato per tutti: dopo 30 anni di retoriche dell’indicazione e partiti dell’onestà, abbiamo un paese in cui è cresciuta l’evasione fiscale, la corruzione, il lavoro grigio e nero, l’infiltrazione mafiosa e criminale.
Davvero la seconda repubblica è migliore della prima? E davvero è solo responsabilità dei politici corrotti? La società civile è un attore innocente? Uno spettatore senza responsabilità?
Non solo.
Si potrebbe sostenere l’elezione del presidente della Repubblica la politica maschile sta dando un’immagine realistica e finale dello stato agonico in cui versa. Ma anche quella che a lungo è stata chiamata «politica delle donne» non sta messa bene.
Parallelamente la vicenda di questi ultimi due anni, ha messo in evidenza anche lo stato di salute – almeno precario una presunta classe di intellettuali che si candida a coscienza della nazione e che nella vicenda Covid ha spesso dimostrato che l’unica loro preoccupazione sia quella di sapere quanto spazio possono contrattare per richiamare l’attenzione sulla loro persona.
Anche per questo alla fine, l’immagine di risorsa ultima che rimane sembra essere quella del tecnico come salvatore della patria.
Una condizione che non è in gradi di affrontare le domande drammatiche del presente( su cui già trenta anni fa con acume metteva in guardia Zygmunt Bauman nel suo La decadenza degli intellettuali) per dare una qualche forma al futuro (sempre che non ne siamo travolti) in cui i tecnici da soli o in forza del solo ro sapere applicato non sono in grado di creare futuro.
Una questione che gli ultimi trent’anni hanno posto il tema, con il crescere della complessità dei fenomeni da governare, dello spazio che i tecnici (non per forza gli intellettuali appunto ricordando Bauman) devono assumere nello spazio di deliberazione, quali regole compatibili con la democrazia devono definire il loro ambito d’azione. In ogni caso le loro competenze, da sole non reggono la sfida del loro ruolo che dovrebbe essere anche quello di restituire valore e visione di un progetto per il futuro.
Il che appunto riapre una questione di formazione di una classe politica, che per ora non c’è e di cui non si vedono all’orizzonte i luoghi in cui formarla. Scrivo luoghi perché una classe politica, in democrazia, non è mai un gruppo coeso costruito culturalmente e professionalmente in un solo luogo (quella è la condizione in cui si forma l’autocrazia), ma in più luoghi, diversi, opposti, distinti e contrapposti.
E tuttavia questo aspetto rinvia a un malessere della politica che non è solo italiano. Il quadro francese, prossimo alle elezioni non soffre di sintomi molto simili, per di più in una condizione già in essere dal 2017. Emmanuel Macron non diventa Presidente anche in conseguenza di quel vuoto di classe politica?
Forse per la prima volta non possiamo vantare di detenere un «primato», ma di essere espressione della malattia, più che il paese capace di proporre la soluzione per superarla.
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