Appassionati di futuro: 7 ingredienti per uscire da una crisi

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30 Dicembre 2020

Sette ingredienti per uscire da una crisi e diventare comunità educante

 

“Cercate di lasciare questo mondo un po’ migliore di quanto non l’avete trovato”
Robert Baden-Powell

 

È il tempo della meritocrazia e delle conquiste individuali. Siamo noi stessi artefici e responsabili di un destino personale, certi e sicuri che saranno le nostre competenze ed esperienze a determinare i nostri prossimi successi o insuccessi.

E mentre siamo indaffarati ad allestire o lucidare il nostro aureo podio, cerchiamo di esorcizzare le ansie derivate dall’eventualità di non riuscire a conquistarlo. Insegniamo più o meno intenzionalmente a vincere medaglie, ad esprimere il meglio di noi per evitare il terrore di essere nominati per ultimi e sentirci così scaraventati nel baratro dei perdenti, un luogo considerato vergognoso, privo di possibilità e progettualità. Una visione spesso ricorrente, sostenuta anche da una feconda e persuasiva tradizione cinematografica e televisiva che vive e viaggia nei discorsi quotidiani e istruisce il nostro divertimento. Accompagnate dal racconto dell’ultimo episodio di Masterchef o dall’incredibile dote di un concorrente di XFactor, le nostre abitudini nutrono i cliché quotidiani, tramandandosi da persona a persona, da generazione a generazione. Nel frattempo, l’educare, che etimologicamente richiama il nobile gesto di “tirare fuori” risorse e possibilità, diventa progressivamente opera di una cultura diffusa, competitiva e spesso inconsapevole, fatta di progetti personali, ideati e implementati da meriti e responsabilità individuali. Lo storico e filosofo Rutger Bregman nel suo ultimo volume mette al centro le virtù della nostra natura collaborativa, evidenziando come oggigiorno venga spesso defraudata e saccheggiata dalle impietose logiche commerciali, lontane da sensibilità solidali. L’homo cooperans viene così tratteggiato dalla narrativa comune come un illuso sognatore della benevolenza umana, un idealista poco cauto ed equipaggiato ad affrontare le insidie della vita.

Siamo così co-autori e responsabili di questa cultura e della difficoltà di integrare la frustrazione e “l’insuccesso”. Di tanto in tanto dichiariamo l’imperfezione di questo modo di vedere il mondo, facendo fatica tuttavia a mettere in pratica alternative. Ci sforziamo il più delle volte di dare un senso profondo all’incoerenza, scatenando verso qualcosa o qualcuno le nostre inevitabili insoddisfazioni. Le generazioni più giovani immerse in questa cultura offrono spesso un bersaglio ricorrente e facilmente disponibile. Il filosofo e psicoterapeuta Miguel Benasayag ci ricorda ad esempio come nessuno chieda un consulto psichiatrico per un bambino o per un adolescente, attribuendo la loro sofferenza ad una crisi storica. L’educazione è derubricata alla responsabilità di pochi, spesso scaraventata sulle spalle dei soli genitori e delle istituzioni scolastiche. Così facendo dimentichiamo di esercitare tutti quanti una funzione educativa, seppur svincolati da rapporti affettivi o ruoli professionali.

Eppure, proprio per la nostra stessa capacità co-creativa, potremmo riprenderci la nostra parte, componendo una nuova narrazione culturale dove la collaborazione può essere rimessa al centro e la comunità rappresentare il motore essenziale per generare nuove e intense direzioni. Scopriremmo così che educare non è semplicemente un progetto destinato alle generazioni più giovani, bensì un processo dedicato a recuperare e accrescere un senso di appartenenza collettiva. La comunità può diventare quindi “educante”, in quanto capace di riconoscere ed esprimere il proprio desiderio e passione per il futuro, attraverso il dialogo di più protagonisti.

Quali ingredienti possono aiutare a sostenere questa identità e a superare quindi una narrativa massificante?

Primo fra tutti è la spinta a mettere in gioco qualcosa di sé per facilitare risposte comuni. Ciascuno di noi ha bisogno di individuare che cosa potrebbe essere: la propria disponibilità di tempo, le intuizioni, la fatica, le passioni. L’incertezza dilagante e il senso trasmesso dalla frammentazione può essere forse affrontata unicamente cercando strategie che superino slogan rassicuranti e ricorsivi, spesso appartenenti a narrazioni trascorse; quelle che Baumann in uno dei suoi ultimi volumi citava essere “retrotopie”, luogo simbolici in cui siamo convinti di custodire l’unico senso di possibilità. Una nuova narrazione può quindi ripartire superando la nostalgia di iniziative passate, iniziando a nominare quei fattori capaci di generare un nuovo sguardo d’insieme, a partire da sé stessi.

Secondo ingrediente è la possibilità di allestire spazi di comprensione. Come sottolineato dal celebre filosofo Edgar Morin, sono luoghi che si fondano sulla comunicazione, sull’empatia e sulla simpatia intersoggettiva e che richiedono apertura e generosità. Ciò significa concretamente programmare momenti in cui poter accogliere punti di vista e idee, offrendo all’ascolto uno spazio sacro e curioso. Raccogliere l’esperienza di tutti, soprattutto delle nuove generazioni, significa metter a tacere le nostre affermate convinzioni, custodite e affermate gelosamente come verità assolute. Il nostro desiderio sarà quello di cercare di esplorare e capire i mondi degli altri, il modo di viverli, evitando di antepore le nostre idee, proposte o, nel peggiore dei casi, le nostre amate e affermate istruzioni per l’uso, frutto di “comprovata” esperienza.

Il terzo ingrediente è aprire al campo dell’immaginazione e del desiderio. In questo senso non significa attesa inoperosa e incondizionata, bensì fare esperienza attiva di speranza. Secondo lo scrittore Ronald Aronson abitiamo in un’epoca in cui questo sentimento non si è smarrito, ma vive per lo più come espressione privata. Le speranze non appartengono quindi alle sole generazioni passate. Abbiamo però necessità, rispetto ad un tempo, di condividerle, confrontarle, elaborarle e metterle in pratica attraverso processi di co-costruzione. Possiamo così puntare su percorsi di formazione e di progettazione in cui confrontare questi sguardi e questi pensieri, metterli in dialogo e a confronto. Poter aprire spazi di speranza collettiva ha quindi un effetto fertilizzante per l’azione futura.

Quarto ingrediente è accettare la serendipità, considerata per definizione quella capacità di “fare scoperte casuali mentre si sta cercando altro”. Quale spazio offriamo all’emergere della casualità e dell’imprevisto? La possibilità e il desiderio di controllo è una componente personale e sociale pervasiva che restituisce all’essere umano sicurezza e certezza. Eppure, in questi mesi di pandemia abbiamo tutti quanti fatto un’esperienza diversa. Accettare questo spazio significa provare a concedersi l’esperienza di “smarrirsi” nell’inquietudine del caos, quale forza dinamica e generativa primordiale di vita.

Quinto ingrediente ci invita a ridefinire il concetto di dialogo tra diversità. Ciò significa aprire progetti e sguardi che possano mettere sempre di più a confronto mondi apparentemente distanti, capaci tuttavia di allenare alla scoperta reciproca delle differenze e alla possibilità di identificare ciò che unisce. Questo comporta scommettere su momenti e spazi ibridi in cui fare esperienza di eterogeneità, poterla vivere, non unicamente come attività occasionale, ma frequentandola e integrandola nella nostra quotidianità. Per farlo sarà necessario allenare l’attitudine a superare la diffidenza e preoccupazione di far incontrare e intrecciare generazioni e provenienze. Puntare a questi luoghi getterà le basi per la nascita di “identità tolleranti”, più competenti nel negoziare, mediare e accettare forme di convivenza.

Sesto ingrediente restituisce allo stare insieme un’accezione positiva e di benessere, attraverso iniziative e spazi in cui poter dissociare il divertimento da una logica competitiva. Recuperiamo quell’aspetto tipico dell’homo ludens, diventato negli anni il nemico della serietà e confinato nel patrimonio infantile della nostra vita. Un tempo, tra l’altro, in cui il gioco era spesso sinonimo di vincitori e perdenti. Fare esperienza giocosa nei nostri incontri significa scatenare la creatività e la spontaneità, superando la mera logica prestazionale e riscoprendo il lato piacevole di risposte collaborative, mirate non solo al fare insieme, ma fortemente incentrate sul gusto di essere e stare.

Ultimo ingrediente è l’anticamera per generare il cambiamento: l’arte di imparare personalmente e collettivamente. È il tramonto e l’alba dei nostri progetti ed è per questo che va scrupolosamente curato. La sua importanza ci invita a fare nostro il suggerimento caldamente motivato dal già citato filosofo Edgar Morin, ossia la capacità di negoziare con l’incertezza, gestire l’inatteso a partire dai primi anni della nostra vita. Siamo governati da strumenti che costantemente cercano di ridurre il più possibile i nostri stati d’indeterminatezza (l’utilizzo dei navigatori, ai sistemi di filtro delle nostre preferenze e dei nostri comportamenti di consumo), espellendo gradualmente la possibilità e le opportunità che potrebbero giungere dall’imprevisto, come l’accesso ad alternative e il superamento di cattive abitudini. Un recente articolo pubblicato sulla rivista “Internazionale” richiama il ruolo svolto dall’impiego di codici simbolici e flessibili di quali ad esempio l’arte, come veicolo interessante per poter esplorare esperienze di flessibilità. Come comunità educante vuol dire avere il coraggio di poter cambiare direzione e lasciare spazio a momenti di confusione e di silenzio, abitandoli e ascoltando e governando l’ansia derivante. Un secondo invito per curare l’apprendimento è quello di restituire valore al tempo dell’attesa, trasformandola da interstizio inattivo e frustrante a spazio intenso di significato, capace di dare corpo ai desideri al sogno attivo di comunità. Da ultimo la capacità di trasformare gli insuccessi in opportunità di crescita. Ciò comporta aggiornare il nostro vocabolario, sostituendo all’errore nuove parole in grado di aprire a concetti positivi ed evolutivi.

La comunità potrà davvero rimettere al centro la sua capacità educante, se sarà capace di crescere da persone che sentono di mettere in gioco la propria passione per il futuro della dell’umanità, a partire dai più giovani ma anche da tutti i protagonisti di una storia che attraverserà generazioni. Da questa apparente e banale semplicità si aprirà l’epoca di “grandi” imprese e di nuove e interessanti pagine.

 

Riferimenti bibliografici

Aronson, R. (2016). Privatization of Hope: Capitalism vs. Solidarity, Yesterday and Today. Boston Review, 26 aprile 2016.

Bauman, Z. (2017). Retrotopia. Roma: Laterza.

Benasayag, M., Gerard, S. (2005). L’epoca delle passioni tristi. Milano: Feltrinelli.

Bregman, R. (2020). Una nuova storia (non cinica) dell’umanità. Milano: Feltrinelli.

Clark, A., Deane, G., Miller, M. & Nave, K. (2020). Il bello dell’incertezza. Internazionale, 1386.

Gelli, B.R. (2007). Le nuove forme di partecipazione. Un approccio interdisciplinare. Roma: Carocci.

Morin, E. (2000). La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero. Milano: Raffaello Cortina.

Morin, E. (2020). Cambiamo strada. Le 15 lezioni del coronavirus. Milano: Raffaello Cortina.

 

 

TAG: comunità, Educazione, partecipazione
CAT: Psicologia, Scienze sociali

Un commento

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  1. alessandrobottai 3 anni fa

    Bravo Davide, analisi lucidissima: hai delineato una strategia che dovremmo imparare tutti a memoria e applicare ogni giorno in modo assiduo.
    Se posso, ma solo per aiutare i lettori a completare ulteriormente il quadro di riferimento al quale ti riferisci – e che hai presentato con estrema chiarezza – vorrei suggerire anche la lettura di La Società della Stanchezza di Byung-Chul Han, le cui tesi portano ulteriore sostegno ai tuoi sacrosanti suggerimenti.
    Invito chiunque legga questo contributo a condividerlo il più possibile ;-)

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