La solitudine è un fatto politico e non privato
Morire nel centro di una benestante cittadina del nord Italia, all’età di 73 anni, in completa solitudine ed essere “ritrovato”, su segnalazione dei vicini, soltanto alcuni giorni dopo. Questa volta accade a Parma, ma il fatto non è isolato e dovrebbe riaprire immediatamente la discussione sul tema delle solitudini nelle nostre città. Spesso siamo portati a considerare la solitudine come un problema di carattere relazionale individuale, qualcosa che attiene al privato di una persona, alla sua esperienza di vita, ad una scelta, più o meno consapevole. Questo poteva essere vero molti anni fa, quando ancora esisteva una rete di relazioni famigliari, di vicinato, una comunità che quotidianamente “lavorava” per mantenere attivi i rapporti. Oggi sempre più la struttura famigliare delle nostre città è data da nuclei unipersonali o mononucleari. I ritmi di vita e le strutture economico sociali in cui siamo inseriti ci costringono, molto spesso, a vivere in contesti di solitudine: chi si trasferisce per lavoro, chi – sempre per esigenze professionali – si trova a viaggiare spesso, chi dedica al lavoro (a volte per scelta, più spesso per necessità) un monte ore superiore a quello di riferimento, riducendo di molto le occasioni di socializzazione e interazione “ordinaria”. A fronte di un mercato che, sia dal punto di vista produttivo che del consumo, basa i parametri di successo e realizzazione individuale unicamente sulla performance, anche il tempo libero finisce col sottostare alle regole della “resa” promettendo, in cambio di un nostro investimento, un’illimitata offerta di beni e di intrattenimento. Tutto, però, deve essere finalizzato. Il concetto di ozio (inteso come otium alla latina, ovvero come spazio per coltivare, in modo libero e immediato, passioni e relazioni che possano accrescere il nostro “intimo”) è quasi scomparso dal vocabolario contemporaneo. Superata l’età della formazione, sia essa scolastica o universitaria – quando ancora è, in un certo modo, considerato normale dedicare un ampio spazio di tempo ad amicizie e sperimentazioni di attività non necessariamente produttive – il tempo va capitalizzato. Gli stessi elementi considerati obbligatori per il passaggio alla fase di vita adulta non incentivano né le nuove conoscenze, né la possibilità di coltivare un ampio spettro di relazioni. Trovare un lavoro, costruire una famiglia diventano gli obiettivi primari, riducendo di molto il tempo a disposizione per le libere relazioni e portando i nuclei già esistenti ad una progressiva chiusura. Questo è, in un certo senso, fisiologico: chi ha figli spesso sperimenta la diminuzione di occasioni di relazione con amici e conoscenti che non ne hanno e, viceversa, i single spesso si trovano esclusi – pur involontariamente – da occasioni sociali prevalentemente pensate per famiglie o coppie.
La permeabilità fra gruppi però, a prescindere dallo status relazionale, è profondamente diminuita nel corso degli ultimi decenni, in una sorta d’iper settorializzazione delle relazioni per la quale i rapporti di un ambito (lavoro, tempo libero, famiglia) non possono essere “travasati” in un altro contesto. Di pari passo è andata la specializzazione di spazi urbani e di aggregazione: al concetto di piazza e bar di quartiere, come luoghi intergenerazionali e “misti” di scambio e socializzazione, si è sostituito quello dello spazio studiato per una specifica funzione/categoria sociale.
Centri ricreativi per anziani, spazi gioco per bambini, centri di aggregazione giovanile, circoli chiusi dedicati ad una specifica attività, hanno quasi completamente sostituito la tipologia di approccio libero al contatto umano, implicando, fra l’altro, un grado di organizzazione relazionale molto forte. I bambini non scendono più nei cortili a giocare e i ragazzi non passano ai “campetti” per vedere se c’è qualcuno con cui tirare due calci al pallone. Gli anziani sempre con maggior fatica si ritrovano al bar a giocare a carte, in un contesto aperto allo scambio, ma vengono inseriti in percorsi strutturati come servizi alla persona. Il discorso non cambia per le categorie che, stando all’anagrafica, dovrebbero essere privilegiate per quanto riguarda la socializzazione: in un articolo apparso oltre un anno fa su Vice, alcuni giovani dichiaravano di sentirsi tanto soli da chiedere un aumento di carico lavorativo non per guadagnare di più o avere un avanzamento di carriera, ma per non affrontare la solitudine domestica. Vivere per lavorare o lavorare per vivere? Un tempo si trattava solo di una riflessione di carattere sindacale, ora ha sempre più a che fare con la perdita d’identità personale al di fuori dei contesti precostituiti (mi definisco in quanto impiegato/medico/artigiano/cassiere e solo attraverso questo ruolo trovo una mia giustificazione esistenziale) e con un’incapacità della società di elaborare strategie di autoconservazione che vadano al di là della mera elargizione di prodotti/servizi. Perché per definire sé stessi occorre tempo, anche perso, e ora non ce lo possiamo permettere. Il capitolo della cura, ad esempio, che si tratti di quella genitoriale, dei figli nei confronti dei genitori anziani, di disabili, di malati, ha sempre più a che vedere con la medicalizzazione del rapporto, dimenticando che esiste un tema assistenziale, ma anche un tema relazionale e che la relazione è una cosa che non può essere acquistata, se non col tempo. Proprio il tempo a disposizione della vita di ciascuno è ad oggi il bene più prezioso, ma anche nella retorica del “tempo per sé” si nasconde in realtà una richiesta di investimento in qualcosa che è altro da noi e che, quasi non servirebbe dirlo, è monetizzabile. Un percorso benessere, un corso di meditazione, una seduta in palestra: la sola cosa che comunque non possiamo acquistare è proprio il rapporto umano e forse per questo, da un punto di vista politico e amministrativo, siamo spesso ossessionati dall’esigenza di trovare soluzioni compensative che possano essere acquistate (privatamente o da parte dello stato).
Eppure, se un tempo un alto monte ore di lavoro e di attività produttiva era assolutamente necessario per il mantenimento del benessere di una comunità, oggi, con i progressi dell’automazione e, in generale, l’avanzamento tecnologico, sempre meno dovrebbe essere l’investimento di ore di lavoro, ma non è questo il punto. Il punto è che il lavoro è diventato uno status, l’essere costantemente occupati qualcosa di positivo a fronte di un tempo libero che, sempre più, assume i contorni del dovere. Devo andare al corso di cucina, devo andare a lezione di pilates, devo finire quella serie di cui tutti parlano. Il vuoto ci sfugge a tal punto da renderci impossibile la sua frequentazione e l’educazione delle nuove generazioni al suo proficuo utilizzo. Tutto sembra tenere, fra un impegno e l’altro, fino a quando, per qualche umanissima ragione, il meccanismo si inceppa. Arriva la pensione, ad esempio, e i singoli, non relazionandosi più con un contesto di tipo lavorativo, in mancanza di rapporti di parentela o amicizia, possono arrivare a non avere alcun contatto nel corso delle loro giornate. In caso di persone autosufficienti questo “rischio” aumenta con il venir meno di altre reti di relazione (es. il commercio di vicinato, i luoghi di libera aggregazione), altro fenomeno in aumento su scala nazionale. Così arrivano le dimissioni difficili dagli ospedali, la crescente richiesta di posti in struttura per gli anziani, le segnalazioni che arrivano alle associazioni di volontariato che si fanno carico di combattere la solitudine. Si dice che il pubblico deve investire, ma siamo sicuri che l’investimento debba essere soltanto sul sintomo e non sulla prevenzione?
Se infatti amicizie e relazioni richiedono tempo per essere coltivate, un tempo dedicato, che deve essere continuativo, libero, non necessariamente finalizzato ad una specifica attività, un tempo che, in una logica di consumo, è improduttivo, a ben guardare, il tempo di relazione potrebbe essere molto produttivo da un punto di vista sociale e da considerarsi, anche in ottica politico/amministrativa, un investimento. Pensiamo al carico economico/professionale che rappresentano le persone con una scarsa rete di relazioni: l’aumento delle patologie connesse alla solitudine, già in giovane età, implica un investimento dal punto di vista sanitario e assistenziale, l’assenza di reti, in età avanzata, obbliga a trovare soluzioni alternative (anche in situazioni di sostanziale autosufficienza) in strutture e servizi pubblici o privati. Una parte di questa spesa potrebbe essere contenuta investendo sul tempo libero, da dedicare alle relazioni e alla socialità, in un percorso culturale che vada a scardinare i principi di mera resa, produttività, efficienza, rendendo però più efficace il sistema di reti sociali e meno indispensabile la compensazione.
L’urgenza quindi, ad oggi, è quella di curare la solitudine, con interventi esterni che non lascino sole le persone, che le vadano a prendere letteralmente nelle loro case, impedendo che avvengano fatti come quello recentemente riportato dalle cronache. Il piano di lungo termine però dovrebbe essere legato a un ripensamento radicale dei tempi di vita e dei parametri stessi che indicano la qualità della vita dei singoli individui. Vivere pensando che un giorno potremmo avere novant’anni e che non sarà solo un problema di mera assistenza, farà la differenza fra vivere e sopravvivere.
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Bel pezzo