Memoria e Futuro

A scuola di rivoluzione

di Marco Di Salvo 14 Luglio 2025

Il caso delle studentesse venete che hanno rifiutato l’esame orale della maturità per denunciare, tra l’altro, la scuola come fabbrica di voti (recriminazione simile a quella dei nonni del ’68), avendo accumulato un vantaggio tale da garantirsi la promozione comunque, disvela un paradosso antico quanto le rivoluzioni moderne.

Queste ragazze hanno oggettivamente operato da una posizione di “privilegio relativo”. Il loro vantaggio accumulato (i buoni voti negli scritti) costituisce una sorta di “capitale culturale” che le protegge dalle conseguenze più dure del loro gesto di protesta (la bocciatura). Questo permette loro di sfidare la struttura (il rito formale dell’orale) senza subirne il crollo definitivo. La loro protesta è resa possibile, paradossalmente, proprio dal loro successo all’interno del sistema che contestano. Hanno potuto sfidare il sistema proprio perché ne avevano interiorizzato le regole abbastanza da costruirsi un paracadute: i loro voti negli scritti e i crediti formativi fungevano da salvacondotto. Un gesto di protesta reso possibile dallo stesso privilegio che contestavano.

Qui risuona l’eco delle grandi rivoluzioni borghesi della storia. I contadini senza terra o gli operai dell’Ottocento, prigionieri della lotta per la sopravvivenza, non guidarono mai le insurrezioni che cambiarono il mondo. A farlo furono avvocati come Robespierre o proprietari terrieri come Washington: esponenti di una classe con abbastanza da perdere da osare il cambiamento, ma non così poco da temere il baratro. Questo relativo privilegio li liberava (in parte) dalla paura paralizzante e alimentava la loro volontà di rischiare “un po’ di quello che avevano” per ottenere un cambiamento sistemico più ampio. La loro rivoluzione non era dettata dalla disperazione della fame, ma dall’ambizione di rimodellare la società secondo principi razionali (libertà, uguaglianza, diritti) da cui si aspettavano, in definitiva, anche un vantaggio per la loro classe e per il progresso generale.

Il gesto delle studentesse riflette questo schema antico e amaro: il vero dissenso radicale, la sfida aperta alle regole consolidate, richiede spesso una base di sicurezza da cui partire. Chi è totalmente schiacciato dal sistema raramente può permettersi il lusso di un rifiuto totale; la sua lotta è più spesso difensiva, frammentaria, immediata.

La protesta delle maturande resta così sospesa in un’amara contraddizione: è l’atto di chi, stando dentro il sistema, ne denuncia le ingiustizie, ma proprio per questo non può scalzarne le fondamenta. Perché la vera ribellione, quella che spezza le catene, nasce solo quando anche chi non ha nulla da perdere alza la testa. E finché la paura organizzata (e alimentata da chi governa) prevarrà sulla speranza di un concreto cambiamento, quel giorno resterà lontano.

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