Memoria e Futuro

Ascoltare in pace

di Marco Di Salvo 13 Maggio 2025

Negli ultimi giorni sembrano essersi aperte possibilità di trattative in tutti i conflitti (reali od economici) che occupano le pagine dei giornali in giro per il mondo e causano decine se non centinaia di vittime al giorno. Questa cosa mi fa pensare come ci sia una necessità imprescindibile in occasione di una trattativa, la capacità di ascoltarsi e di ascoltare le cose che la controparte ha da dire. Non sembra che al momento attuale le varie parti in conflitto abbiano questa disponibilità quanto, più che altro, che si mettano in campo le cosiddette “strategie dell’ascolto”.

È vero, la strategia dell’ascolto è da sempre un pilastro nelle trattative di pace, dove la capacità di comprendere le ragioni dell’altro diventa un atto rivoluzionario. Nelson Mandela sosteneva che «ascoltare è la più potente arma per cambiare il mondo», e in effetti, nei processi di riconciliazione, come quelli in Sudafrica post-apartheid, l’ascolto attivo ha permesso di trasformare l’odio in dialogo. Quando le parti in conflitto accettano di sentire il dolore, le paure e le aspirazioni reciproche, si crea uno spazio per compromessi autentici. L’ascolto, però, non è solo ricezione passiva: implica un’empatia critica, che riconosce le differenze senza annullarle. È un lavoro faticoso, perché richiede di sospendere il giudizio e di accettare che la propria verità non sia l’unica.

Tuttavia, questo strumento è stato spesso distorto in politica, soprattutto durante le campagne elettorali. Quante volte i leader (da quelli nazionali agli amministratori locali), anziché praticare un ascolto autentico, lo riducono a una tecnica di marketing: sondaggi, focus group e social listening diventano modi per catturare consensi, non per comprendere i bisogni reali. Le promesse si trasformano in specchi che riflettono le aspettative dell’elettorato, senza alcuna intenzione di tradurle in azione. Jürgen Habermas metteva in guardia contro la «colonizzazione del mondo della vita» da parte della logica strumentale: quando l’ascolto diventa mera strategia, si svuota di significato, alimentando cinismo e disillusione. Le conseguenze sono tangibili: polarizzazione, sfiducia nelle istituzioni e una democrazia che si riduce a teatro di monologhi sovrapposti.  Vi ricorda qualcosa?

Anche nei rapporti personali, l’ascolto sembra diventare un’arte perduta. L’abitudine a inviare messaggi vocali su WhatsApp, anziché conversare come si faceva una volta al telefono, riflette una cultura della fretta in cui la profondità cede il passo alla praticità. Scambiarsi audio è come lanciarsi bigliettini: si risparmia tempo, ma si perde la ricchezza delle sfumature vocali, delle pause, del contatto che solo una chiamata può offrire. Sherry Turkle, studiosa dei rapporti tra tecnologia e società, osserva che «ci abituiamo a connetterci con gli altri in modi che ci permettono di controllare ciò che condividiamo», evitando la vulnerabilità del dialogo vero. Il risultato è una comunicazione frammentata, in cui è sempre più raro sentirsi compresi o cambiare idea grazie all’incontro con prospettive diverse.  Cosa le sta diventando sempre più difficile anche nei dialoghi di persona vista come ci si forniamo le opinioni e come siamo abituati a parlare. Sempre più raramente, mi sembra, si sia in grado di ascoltarsi, vittime di questa comunicazione monodirezionale a cui siamo purtroppo abituati.

Eppure, l’ascolto rimane una speranza. Come scriveva Epitteto, «abbiamo due orecchie e una sola bocca per un motivo». In un’epoca di semplificazioni e algoritmi che rinchiudono ciascuno nella propria bolla, riappropriarsi dell’ascolto significa ribellarsi alla superficialità. Non si tratta di rinunciare alla tecnologia, ma di usarla con intenzione: scegliere di chiamare invece di inviare un audio, di fare silenzio invece di riempire ogni spazio con parole. Solo così, forse, potremo tornare a vedere nel dialogo non uno strumento, ma un fine: il luogo in cui, ascoltando, ci si permette di essere cambiati reciprocamente.

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