Cosa vi siete persi
Cosa vi dovreste perdere
C’è una trappola perfetta che ci avvolge con la complicità dei nostri stessi ricordi. Per chi è cresciuto negli anni Ottanta e Novanta, la musica di quell’epoca non è solo un suono, ma un rifugio emotivo. Ogni riff di chitarra, ogni battito elettronico, ogni voce ormai familiare diventa un porto sicuro in un presente liquido. Eppure, questo abbraccio nostalgico rischia di trasformarsi in una prigione dorata, alimentata con calcolo da chi sa bene come monetizzare la malinconia. Le case discografiche, di fronte al crollo delle vendite tradizionali, hanno scoperto un pozzo d’oro nei cataloghi del passato. Oggi la musica di repertorio rappresenta quasi il 70% dell’intero mercato musicale a livello di vendite e ascolti, un dato spaventoso che racconta una fuga dal presente verso ciò che è già noto. Gli algoritmi delle piattaforme di streaming amplificano questo fenomeno, creando bolle sonore che ci restituiscono in loop le colonne sonore della nostra gioventù, soffocando la scoperta di nuovi suoni sotto un tappeto di ricordi riconfezionati.
Non è un caso se i tour di maggior successo anche questa estate sono quelli dei gruppi sciolti decenni fa, riuniti per l’occasione, o se brani come “Dreams” dei Fleetwood Mac tornano miracolosamente in classifica grazie a un video virale su TikTok. La reunion degli Oasis, band che non pubblica dischi nuovi dal 2008, è diventata una delle operazioni musicali più redditizie degli ultimi tempi.
Questo meccanismo non è innocuo. Spinge gli artisti contemporanei a inseguire le logiche dell’algoritmo, costretti a pubblicare singoli ogni 50 giorni per rimanere nel flusso, con il risultato che molte delle loro canzoni vengono ignorate, sommerse dal flusso inarrestabile della nostalgia. La nuova musica diventa effimera, durando “l’espace d’un matin” – giusto il tempo di un mattino – prima di essere sostituita da qualcosa di ancora più fresco o, più spesso, da qualcosa di molto più vecchio.
La generazione cresciuta negli anni Ottanta e Novanta non è la prima a vivere questa tensione tra il richiamo del passato e l’innovazione. Un parallelo sorprendente si trova proprio negli anni Ottanta, quando i giovani di degli anni sessanta reagirono con fastidio al tentativo di riproporre loro la musica che aveva accompagnato l’adolescenza. In Italia, operazioni come i film dei Vanzina sulle spiaggie della Versilia o trasmissioni TV come “Una Rotonda sul Mare”, seppure di successo, non provocarono l’esplosione di canali radiofonici dedicati al genere o di tournée di successo di quei protagonisti. Al massimo li vedevi girare per le feste patronali estive nei paesini di vacanza, con un senso di imbarazzo e tristezza infinito.
Oggi, quella stessa generazione – i baby boomer – è spesso oggetto di stereotipi sui social (“Ok, boomer”), accusata di bloccare il ricambio culturale. I loro figli e nipoti, cresciuti con le sonorità degli anni Ottanta e Novanta, vivono una contraddizione analoga: da un lato disprezzano la retromania dei più anziani, dall’altro si aggrappano alla loro. È qui che il business mostra il suo volto più cinico. Le major discografiche, invece di investire in nuovi talenti, spendono somme folli per acquisire cataloghi editoriali di artisti defunti o inattivi. Le pubblicità, i film, le serie tv riempiono le colonne sonore con brani vintage per suscitare emozioni preconfezionate. Le radio commerciali ripetono ossessivamente gli stessi successi. Il risultato? Un presente musicale svuotato di originalità, dove anche le nuove produzioni spesso imitano il suono del passato per sopravvivere agli algoritmi che premiano la riconoscibilità immediata.
Cosa fare allora? Non si tratta di rinnegare le canzoni che hanno segnato la nostra vita. La nostalgia, come dimostrano studi psicologici, è un’emozione potente: può rafforzare i legami sociali, aumentare l’autostima, darci un senso di continuità. Ma quando diventa l’unica dieta sonora, ci impoverisce. Spegne la curiosità, ci rende passivi consumatori di un passato idealizzato. Bisogna resistere alla melassa musicale con un atto di volontà: esplorare playlist fuori dagli schemi, ascoltare album nuovi per intero, frequentare locali che propongono artisti emergenti. Perdersi qualche compilation di musica nota per esplorare le tendenze odierne.
La generazione degli anni Sessanta ci insegna che la musica è energia vitale, non un museo. Se continuiamo a vivere di ricordi, rischiamo di non accorgerci della prossima rivoluzione sonora. E quella, forse, è la cosa che non vi dovreste perdere.
Devi fare login per commentare
Accedi